Johns Hopkins University Press
  • Un’ipotesi sulla data di inizio della composizione dell’Inferno e del Purgatorio*

In tutto l’Inferno, fra molti dati che non vanno oltre il 1307, due soli potrebbero forse portarci, l’uno fino al 1312, l’altro fino al 1314; in tutto il Purgatorio non un solo dato sicuro allude a fatti del 1314 o posteriori: con che diritto dunque si asserisce che il Poema fosse cominciato nel 1314, chiamando punto di partenza quello ch’è quasi il punto d’arrivo?

Ernesto G. Parodi, “La data della composizione e le teorie politiche dell’Inferno e del Purgatorio di Dante,” 1921

Quest’ipotesi dei ritocchi sembra a prima vista molto ragionevole, soprattutto perché consente di conciliare l’idea preconcetta sulla stesura dell’Inferno nel 1304–’08 con le nume-rose “fughe in avanti” presenti nella cantica. Il dispositivo è di semplice applicazione. Ogniqualvolta s’incappi in una “diffrazione” cronologica, si ricorre all’ipotesi del ritocco posteriore, come se la data dell’Inferno non fosse [sc. non dovesse essere] la risultante finale di un’analisi puntigliosa di tutti i riferimenti interni ricavabili dal testo, ivi inclusi quelli posteriori al 1308, ma il suo assunto iniziale, cui conformare in qualche modo le malaugurate diffrazioni che dovessero presentarsi.

Giuseppe Indizio, “La profezia di Niccolò e i tempi di stesura del canto 19 dell’Inferno,” 2002 [End Page 116]

Dante war ein grosser Mystificator.

Ernst R. Curtius, comunicazione orale a Gianfranco Contini, ante 19511

Premessa

Mentre sappiamo parecchie cose dei primi trentacinque anni di vita di Dante, passati quasi tutti a Firenze (per esempio, che egli nacque nel maggio-giugno 1265, che nel 1289 partecipò alla battaglia di Campaldino, che, dopo aver assunto ruoli via via più rilevanti nella politica fiorentina, nell’ottobre 1301 fu inviato come ambasciatore a Bonifacio VIII e che da allora, per effetto delle condanne inflitte dai Neri, al potere da novembre, non fece più ritorno in patria), si sa molto poco di quel che gli successe dal 1302 fino alla morte a Ravenna nel settembre 1321. Le tante cose che non conosciamo giustificano, tra l’altro, le seguenti domande:

  1. 1. Quando e dove Dante iniziò la stesura del Convivio e del De vulgari eloquentia? Quando e dove decise di non portarli a termine?

  2. 2. In che anno iniziò a lavorare alla Commedia come noi la leggiamo?

  3. 3. Quando e dove finì l’Inferno e il Purgatorio?

  4. 4. Quando si trasferì da Verona a Ravenna?

Non è un caso che i lavori recenti offrano al riguardo risposte molto diverse né che tra le parole e le formule più usate al riguardo da studiosi molto seri ritornino “probabilmente,” “forse,” “a meno che,” “non sappiamo,” “è possibile che.”2 E non sorprende nemmeno che le soluzioni di volta in volta escogitate siano in sostanza, e, con pochi aggiustamenti, sempre le stesse che, almeno dalla fine dell’Ottocento, sono state ripetutamente proposte, rifiutate e di nuovo rilanciate, in una specie di loop.3

Curtius ha osservato che

il progresso delle scienze storiche si realizza compiutamente solo laddove specializzazione e visione complessiva si combinano e si compenetrano. Esse si esigono reciprocamente e stanno in relazione di complementarità. La specializzazione senza l’universalismo è cieca. L’universalismo senza la specializzazione è una bolla di sapone;4 [End Page 117]

e anche se di norma il felice amalgama di specializzazione e visione complessiva auspicato dal grande romanista si verifica raramente, è mia impressione che qualcosa del genere si sia realizzato in alcuni studi su Dante del nuovo millennio. Oltre ad aver prodotto acquisizioni di grande rilievo, essi ci costringono a ripensare alle modalità della prima diffusione della Commedia e ci permettono, grazie a uno “spostamento del punto di vista,”5 di intravedere risposte diverse alla seconda domanda (“In che anno Dante iniziò a lavorare alla Commedia come noi la leggiamo?”).6

Non lo ripeterò più, ma dichiaro una volta per tutte, alla luce di quanto appena ricordato, che anche la presente ricostruzione, come tutte quelle che l’hanno preceduta, è meramente congetturale e si fonda su una personale reinterpretazione degli scarsissimi indizi di cui disponiamo e della letteratura sull’argomento a me nota.7

1. Lo stato della questione

I termini della questione sono ancora, a ben guardare, quelli delineati più di cinquant’anni fa con eleganza e non comune capacità di sintesi da Gianfranco Folena:

Pochissimi elementi sicuri possediamo sulla composizione e sulla pubblicazione della Divina Commedia. Non sappiamo quando Dante cominciò a comporre [. . .]: se prima dell’esilio, secondo la notizia riferita dal Boccaccio e probabilmente fantastica (anche se può contenere un fondo di verità) del ritrovamento dei primi 7 canti dell’Inferno . . . ; o addirittura dopo la morte di Arrigo VII come altri hanno sostenuto, cosa ancor più improbabile; oppure intorno al 1306 secondo l’ipotesi per noi più plausibile. Certo è che le prime cantiche dovevano già circolare quando il poeta era intento all’«ultima fatica», che dovette concludersi solo nell’estremo tempo della sua vita, se nella prima Ecloga a Giovanni del Virgilio Dante, fra la fine del 1319 e l’inizio del ’20 ne parla come d’opera non ancora conclusa contrapponendola alle due riguardanti gli infera regna, già pubblicate. Insieme con questo, l’altro terminus ante quem assolutamente incontestabile per la pubblicazione delle prime due cantiche è costituito dai primi frammenti presenti nei Memoriali e Registri bolognesi a cominciare dal 1317 per l’Inferno [. . .] e dal 1319 per il Purgatorio (1.1). Ma c’è un altro argomento che indica come probabile la circolazione di una parte del poema prima dell’aprile 1314: in una glossa autografa [. . .] stesa [. . .] tra fine 1313 e inizio 1314 (e prima della morte del papa Clemente V, nell’aprile 1314) Francesco da Barberino [. . .] discorrendo di Virgilio aggiunge: “Hunc [Vergilium] [End Page 118]

Dante Arigherii in quodam suo opere quod dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat, commendat protinus ut magistrum [. . .].” È questo il primo accenno alla circolazione dell’Inferno (non direi anche del Purgatorio che [. . .] anzi mi pare ne sia assolutamente escluso) [. . .]. Possiamo solo dire che l’Inferno si sarà divulgato prima dell’aprile 1314 e il Purgatorio forse qualche tempo dopo.8

Gli argomenti ripetuti anche di recente – continua Folena – per portare la pubblicazione dell’Inferno oltre l’aprile 1314 e quella del Purgatorio oltre l’autunno 1315, in base a supposte profezie di avvenimenti storici post eventum, non hanno alcun peso e indicano solo il pericolo di fondare ipotesi cronologiche, addirittura l’ipotesi di revisioni successive al compimento delle cantiche in vista della pubblicazione, su dati storici interni che non siano assolutamente sicuri, ma, come in questi casi, aleatori e controversi.9

Imbastisco qui, per comodità dei lettori, un campionario delle risposte alle domande formulate sopra che sono state proposte in biografie e studi autorevoli degli ultimi novant’anni, a partire da quelle fornite da Michele Barbi nella sua classica e particolarmente influente Vita di Dante.10 Il trattino lungo significa che il problema in questione non è affrontato; il punto di domanda, che l’autore ha ritenuto preferibile non suggerire una risposta. Il punto di domanda tra parentesi tonde, che la data o la data topica non è formulata in modo inequivocabile. Tanto nel prospetto quanto nel prosieguo del lavoro non tengo intenzionalmente conto della recentissima proposta di Alberto Casadei di rilanciare – però modificandola sostanzialmente – la narrazione boccacciana di un primo gruppo di canti dell’Inferno “scritto a Firenze, tra il 1300 e il 1301.” La proposta dell’amico Casadei – suggestiva, ma a mio giudizio non condivisibile – poggia su una radicalmente diversa lettura degli “elementi testuali e documentari disponibili” e, conseguentemente, su una diversa linea argomentativa: per questo la discuterò in un intervento apposito.11

Come si vede, mentre Barbi colloca l’inizio dei lavori alla Commedia verso il 1307, la fortunata biografia di Petrocchi, che riprende la linea Parodi-Vallone, insinua la possibilità di anticipare la genesi del poema al 1304–1306, cioè negli stessi anni in cui egli ritiene che Dante lavori al Convivio. Anche in anni recenti, i più costeggiano tuttavia la datazione di Barbi.

Tra le acquisizioni degli ultimi anni che consentono, o piuttosto impongono, un deciso cambio di paradigma, ricordo, per cominciare, il per me indubitabile, ancorché congetturale, ancoraggio del De vulgari [End Page 119]

Inizio e interruzione del Convivio e del DVE Inizio della Commedia Fine dell’Inferno e del Purgatorio A Ravenna
Barbi 1933 (1961) p. 23: Conv. e DVE, 1304–1307 p. 72: ca 1307 (?) p. 72: «a breve distanza tra loro poco dopo la morte di Arrigo VII [sc. 24.8.1313]» p. 31: ?
Petrocchi 1957 (1994) p. 64: Inf., 1304; Purg., 1308 p. 77: Inf.,1308;
p. 83: revisione, seconda metà 1314;
p. 64: Purg., 1312;
p. 83: revisione, autunno 1315
Quaglio 1970 p. 81b: Conv. e DVE, 1304–1306 p. 81b: 1306–1307 p. 81b: Inf., 1309 (?); Purg., 1313 (?)
Padoan 1975 (1981) pp. 67–68, 72: Conv, I–III, 1304–1307; DVE, 1305; Conv., IV, marzo 1306–1307 p. 89: «subito dopo il Convivio che rimase interrotto» (1307 o 1308?) p. 102: Inf., dopo l’aprile 1314 o nel 1313 p. 113: primavera 1320
Mazzoni 1978 p. XVI: Conv., Bologna, 1304–1306; altrove, 1307 (o 1308?) p. XVIII: DVE, Bologna, 1304–1305 p. XXIII: “a partire dal 1308” p. XXII: in avanzata fase di composizione nel 1314 p. XXII: “verso il 1318”
Petrocchi 1983 (1993) p. 102:
DVE, Verona, 1303–1304;
Conv., Lunigiana, 1304–1307
p. 102: Lucca, 1304
p. 147: Arezzo (?), 1304
p. 190: Inf., “pubblicato nella seconda metà del 1314”;
Purg., “nell’autunno del 1315”
p. 189: 1318–1321
Padoan 1993 p. 21: Conv., 1304–1306 pp. 34–35: 1306 pp. 55–56: Inf., I–VII, Casentino, entro il 1308; IX–XVI, Casentino, entro il 1311
p. 90: tutto, aprile 1314.
p. 93: Purg: 1315–1316
p. 57 ss.: 1314
Malato 1999 (2002) p. 150: Conv., I–III: 1303–1304;
pp. 150 e 163: DVE: 1305–1306;
p. 150: Conv., IV: 1306–1308
p. 231: 1306–’07 p. 241: Inf. e Purg, autunno 1313–inizi 1314 p. 60: 1318 o ’19 o ’20
Pertile 1996 (1999) p. 46: DVE e Conv., 1304 (?);
p. 48: DVE, «probably in 1303–4»
p. 46: «probably in 1307»;
p. 57: 1306–’08
p. 57: Inf., dopo il 1309 Purg., dopo il 1313 p. 68: 1318
Gorni 2008 p. 206: DVE: Verona (?), 1303–1305 o 1304–1307;
p. 191:Conv:, 1304–1307
p. 231: 1300 (?) o 1304 o «soprattutto» 1306/1307 p. 232: Inf., inizi 1314 Purg., 1319 (?) p. 297: (?)
Bellomo 2012 p. 25: Treviso (?), metà 1304–inizi 1306:
p. 93: Conv. I, 1304;
IV, 1306–1308 (oppure tutto tra 1304 e1307)
p. 119: DV E, metà 1304–inizio 1305
p. 25: 1307
p. 215: 1306
p. 215: Inf., 1314 Purg., 1316 p. 26: 1318
Santagata 2012 pp. 160, 210: Conv. e DVE, 1304–1306 p. 210: 1300 (?)1
p. 213: Inf., Lunigiana, metà del 1306
p. 213: Inf., Lucca, 1308–1309;
Purg., 1309–ante fine 1315–’16
p. 300: 1318 o 1319
Inglese 2015 p. 98: DVE, Treviso, 2a metà 1304;
Conv., estate 1304– tutto il 1308
pp. 102–103: progetto, estate 1308–inizi 1309;
p. 109: Inf. e Purg., Casentino, 1309–1310
pp. 118–128:
Inf.,1313–1314;
pp. 129–131, Purg., 1314–1315
p. 140: 1320
Barbero 2020 pp. 203–204: Bologna, 1304–inizio 1306, gran parte del Conv. e tutto il DVE p. 204: “forse non molto tempo dopo [il febbraio 1306]” pp. 245–246: Inf. e Purg, ante 1316 p. 257: 1318 o 1319
Brilli-Milani 2021 p. 170: DVE: agosto 1302–febbraio 1305;Conv., primi anni dell’esiliosoggiorno presso i Malaspina
p. 195:1307–1309, Conv., IV (cap. sull’impero)
p. 189: 1308; pp. 195–196: 1307–1309 (?)2 p. 227: Inf. e Purg., 1314–1316/’17 p. 221: ante luglio 1320
Pellegrini 2021 pp. 95–113: Conv., avvio 1303;
DVE, tra 1304 e 1306; Conv., IV dopo il maggio 1306
p. 135: Inf., dopo l’autunno 1306
pp. 136–139: Inf., xix scritto prima del settembre 1310
pp. 201–210: primavera 1320

1 “Sia chiaro, la Commedia che noi conosciamo può essere lo sviluppo di un progetto passato, ma in realtà nasce nell'esilio, e con intendimenti diversi da quelli a cui quel progetto mirava” Santagata, Dante, 210.

2 “Diversi studiosi ritengono che nello stesso momento abbandoni quest’opera [sc. il Convivio] a favore della Commedia” Brilli-Milani, Vite, 195–196 e nota.

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eloquentia alla Bologna del 1305 proposto ripetutamente, e con sempre maggior efficacia, da uno dei più ostinati indagatori del trattato dantesco, Mirko Tavoni, il quale ha valorizzato e messo a sistema intuizioni e indicazioni di studiosi precedenti (in ordine cronologico: Aristide Marigo, Paul Renucci, Guido Mazzoni, Maria Corti, Umberto Carpi, Luciano Gargan e, soprattutto, Giuseppe Indizio, il quale aveva rilanciato con forza la candidatura di Bologna come città dell’esilio nel periodo 1304–inizi del 1306).12

2. La composizione a Bologna e per Bologna del De vulgari eloquentia

Con una serie di buoni argomenti, che l’abbondanza dei suoi lavori consente di non ripetere qui, Tavoni suggerisce che il De vulgari eloquentia sia stato composto da Dante “a Bologna e per Bologna” in un periodo compreso tra la fine del 1304 e il 1305–1306.13 La sostituzione di una proposta ben argomentata alla sostanzialmente immotivata ipotesi petrocchiana di un soggiorno a Treviso non senza “spostamenti prolungati nel tempo, tra Padova e Venezia e altre città non lontane,” permette allo studioso di saldare in modo persuasivo alla stessa tessera (l’incompiuto De vulgari eloquentia) altri due elementi di quel puzzle che possiamo chiamare “Il ventennio dell’esilio, 1302–1321,” vale a dire i due spezzoni del pure incompiuto Convivio (secondo la faglia ben individuata da Maria Corti), oltre che di proporre quella che finora sembra la lettura più persuasiva del profondo cambio di prospettive che si avverte tra i due trattati.14 Con le parole di Tavoni, di cui riporto sotto alcuni passaggi essenziali:

Devo [. . .] richiamare qual è, secondo Gianfranco Fioravanti (2014, 2015), con cui concordo totalmente, il pubblico al quale Dante si rivolge nel I libro del Convivio. L’idea è che nel Convivio Dante intende “insegnare ai nobili che cosa sia la vera nobiltà,” e che i destinatari specifici a cui si rivolge sono per l’appunto i “principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati” (Cv I ix 5). A mio giudizio, i primi rappresentanti di questo ceto davanti ai suoi occhi sono, nel momento in cui scrive queste parole, gli uomini e le donne della famiglia e dell’entourage di Bartolomeo della Scala di cui è ospite nel 1303–1304.15 [End Page 122]

Lo stesso Tavoni mette poi a confronto i passi che seguono dei due trattati:

Per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare

(Conv. 1.7.6).

Quod autem honore sublimet [il volgare illustre], in promptu est. Nonne domestici sui reges, marchiones, comites et magnates quoslibet fama vincunt? Minime hoc probatione indiget. Quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus

(DVE, 1.17.5–6);

e commenta:

È evidente la ben diversa sicurezza, rispetto alla propria condizione di esiliato, e l’enorme aumento di fiducia in sé stesso come autore, che traspare dal secondo brano rispetto al primo. E non c’è da stupirsene. Il primo brano, infatti, Dante lo ha scritto per i signori di Verona, che lo ospitano come esule – solo, politicamente isolato e povero. Egli si propone loro come “filosofo laico” che può assisterli culturalmente nell’arte di governo. Da loro spera di ottenere, grazie al convivio dottrinario che per loro imbandisce, di riscattarsi dall’avvilimento anche intellettuale conseguente alla dolorosa povertà. Interpreta il suo ruolo con dignità e orgoglio, ma oggettivamente è uno al loro servizio, senza risorse proprie, che dipende dalla loro liberalità, dal loro volubile apprezzamento, dal loro arbitrio.

Il secondo passo, invece, Dante lo ha scritto a Bologna, immerso in un ambiente intellettuale dove gode di alto prestigio, come poeta volgare illustre, come maestro di poetica e di retorica e forse anche – non è escluso anche se non è probabile – con un qualche ruolo universitario. Non è più al servizio di “principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente,” ma si sente liberamente al servizio del volgare, che lo ripaga di gloria al punto da farlo sentire superiore a principi, baroni, cavalieri, operando uno straordinario, anche se solo percepito, scavalcamento sociale.16

Tavoni non si limita a ricondurre persuasivamente il cambiamento di tono, e di lingua, dell’autore a un cambiamento del pubblico e della situazione, ma affronta, offrendone una soluzione ragionevole, anche il [End Page 123] controverso problema del diverso giudizio sulla nobiltà del latino e del volgare che Dante formula nei due trattati:

Dunque quello sermone è più bello, nello quale più debitamente si rispondono [li vocabuli; e più debitamente li vocabuli si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte. Onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile

(Conv. 1.5.14).

Harum quoque duarum [locutionum] nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat. Et de hac nobiliori nostra est intentio pertractare

(DVE 1.1.4–5).

Come subito spiega:

La maggiore nobiltà del latino, nel primo contesto, è ovvia. L’atteggiamento di “filosofo laico,” che divulga la filosofia a nobili illetterati nell’entourage scaligero veronese, infatti, presuppone la tradizionale superiorità del latino. Dante dice di sé: “io adunque che non seggio alla beata mensa [dei litterati, dove si mangia il ‘pane delli angeli,’ cioè il sublime cibo della filosofia], ma, fuggito della pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati” (Conv. 1.1.7–10). E dunque intende distribuire in volgare qualcosa del vitale cibo del sapere a chi da quella beata mensa dei litterati è escluso perché non sa il latino: agli “’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati” (Conv. 1.1.6), e in particolare, appunto, ai “nobili illetterati” (Conv. 1.9.5). In questo schema prossemico, il latino sta per definizione più in alto del volgare.

Invece a Bologna, avendo come interlocutori un pubblico solidale di maestri di artes dictandi in latino e in volgare e di giudici-notai litterati ma al tempo stesso appassionati e cultori di poesia volgare, Dante può assumere l’atteggiamento, che gli è riconosciuto, di massimo poeta volgare e di teorico dell’eloquenza volgare, e in questo ambiente eccezionalmente favorevole e solidale può spingersi a valorizzare il volgare fino a questo inaudito punto di audacia.17

A scanso di equivoci, ribadisco che anche la datazione del De vulgari eloquentia di Tavoni è congetturale, ma è sostanziata da un numero impressionante di indizi ignorati o deliberatamente tralasciati dagli studiosi precedenti e non può non essere ritenuta incommensurabilmente più solida delle alternative correnti. La ricapitolo: Dante si mette a scrivere il De vulgari a Bologna nel 1305 dopo aver iniziato nel 1303–1304 il Convivio (certamente il primo libro): e questo o, come suggerisce Tavoni, a Verona, presso il “gran lombardo” Bartolomeo della Scala, oppure, [End Page 124] come per esempio ritiene Indizio – e non cambierebbe in modo sostanziale né la situazione dell’autore né l’ideologia dei primi destinatari –, in Casentino presso i conti Guidi.18

Una volta ricordato che – a differenza del pur geniale libello, lasciato in tronco – il Convivio, di cui Dante prevedeva un’articolazione in quindici libri, è un’opera di grande impegno, che già nella porzione effettivamente realizzata (1–4) è di poco inferiore per estensione alla Commedia, l’estensione e l’impegno bastano a spiegare perché, anche dopo aver avvertito che le prospettive di una sistemazione a Bologna erano sfumate, Dante tornasse sul trattato enciclopedico completando o componendo per intero il commento alla terza canzone, molto probabilmente tra Casentino e Lunigiana, dove nell’ottobre agiva per conto dei Malaspina come procuratore in un atto di pace con il vescovo di Luni. Infatti, se circa a metà del quarto libro si ricorda la morte di Gherardo da Camino, del marzo 1306 (4.14.12), il commento a Le dolci rime si sviluppa per altri sedici capitoli – una quarantina di pagine a stampa fitte nella recente edizione delle Opere di Dante della Società Dantesca Italiana.19 Dunque, certamente dopo il patto dei bolognesi coi guelfi neri toscani del 5 aprile “ad conculcationem, depressionem, exterminium atque mortem perpetuam ghibellinorum et alborum.”20

Non credo sia necessario, ma per evitare che qualcuno possa pensare che la menzione della morte di Gherardo sia un’aggiunta in extremis, sottolineerò che nessuna parte di questo quarto libro – una gigantesca quaestio de nobilitate dai contenuti almeno in parte indigesti per “principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente” – può essere anticipata al 1304, se non altro perché l’insieme presuppone, evidentemente, un pubblico (o meglio, un “destinatario ideale”) diverso da quello dei primi tre libri e almeno in parte vicino a quello per cui nel 1305 Dante aveva scritto il De vulgari eloquentia: maestri di artes dictandi in latino e in volgare, giudici-notai e altri come loro, “litterati ma al tempo stesso appassionati e cultori di poesia volgare.” Se nel libro ci sono stati ritocchi in extremis non riguardano certamente il cap. xiv; semmai, la lunga digressione sulla “imperiale autoritade,” che l’autore dichiara di voler trattare in un solo “capitolo speziale” (Conv. 4.3.10), ma che di fatto, come non mancherà di rilevare, finisce per occupare due capitoli (4.4–5).21 La giunta e l’intero libro non sono pensabili prima del 1306. E non si può escludere (ed è un’ipotesi che io preferisco, per ragioni che si accenneranno più sotto) che la stesura del quarto libro nel suo complesso possa essere ulteriormente posticipata. [End Page 125]

3. E la Commedia?

Ho accennato sopra a più recenti acquisizioni, che hanno favorito la genesi della presente proposta. Nonostante la precocissima e molto positiva recensione di Contini al primo dei Dante Studies di Singleton (“breve, animoso, elegante nell’impianto e nel dettato, intelligentissimo”), i dantisti italiani e nordamericani hanno lavorato a lungo in parallelo, arroccati nelle rispettive sfere di influenza.22 Negli ultimi vent’anni, quando il dantismo italiano è stato più fortemente colpito e rivitalizzato dall’onda lunga della vivacissima dantologia americana (dall’appena citato Singleton a Freccero a Hollander, per non fare che nomi ovvi), ho potuto leggere, man mano che il suo lavoro procedeva, il commento di Luisa Ferretti Cuomo, che una lunga esperienza di vita e di lavoro all’estero ha reso più sensibile alla dimensione narrativa della Commedia.23

Ho avuto inoltre la fortuna di leggere prima ancora della pubblicazione il libro recente di Piermario Vescovo sul tempo nella Commedia, dove si propone una sottile, ma sempre pertinente, analisi narratologica del poema con acute riletture di snodi spesso trascurati, come per esempio il capitolo su Par. 30.133–138, “Il trono vuoto” (lo stesso Piermario Vescovo ricorda, in una bella pagina del suo saggio, di essersi formato a Venezia con un erudito molto solido come Giorgio Padoan, ma anche con uno dei più grandi studiosi europei di teoria della letteratura, Francesco Orlando).24 Nel suo libro, Vescovo accenna più volte alle ipotesi di datazione oggi più seguite e ai diversi “percorsi” della critica dantesca, osservando tra l’altro:

La prima [soluzione] ricava dai dati semplicemente cronologici riflessi dalla Com-media una sua diffusione per parti o “puntate” come un roman feuilleté, se mi si passa la definizione. Tale ipotesi di lavoro imputa le cosiddette “contraddizioni” all’inevitabilità della divulgazione per gruppi di canti o parti, cercando la conferma di tale assunto in indizi di discontinuità formale o narrativa.

La seconda, sostenendo una pubblicazione compatta e non spezzata delle prime due cantiche, prova a restringere la composizione delle prime due parti del poema in un arco temporale tale da giustificare le contraddizioni non patenti, in un rapporto non troppo divaricato tra i dati testuali e gli elementi della realtà esterna ad essi riferibili. Arrigo VII non può essere atteso, vivo, nel canto 6, del Purgatorio, alludendo a lui attraverso l’imperatore precedente, e risultare già morto, attraverso possibili indizi reperibili, nel 33 della stessa cantica.

Ma se il tempo di enunciazione fosse volutamente fermato, stabilito in una data in cui avviene il racconto, ecco che Dante potrebbe benissimo fingere di narrare la [End Page 126] porzione dell’ascesa purgatoriale (quella maggiormente scandita dall’ora nel tempo del viaggio) come se gli episodi del presente – tanto più se dolorosi e spiazzanti, per questo sottoposti a censura, rimozione deliberata o “presbiopia” narrativa – non fossero ancora accaduti, senza contraddizione di sorta [. . .]. Mentre la “prolessi profetica, il cui tempo non è ancora stato raggiunto dallo stesso narratore, offrirebbe al lettore una consapevolezza e un orizzonte ulteriore di esperienza, però nei termini della “narrazion buia,” dove la conoscenza esibita di personaggio e narratore si ferma a un tornante precedente della Storia.25

E ancora:

A partire da questi problemi si ripropongono, dunque, due soluzioni nettamente divaricate, non solo per il caso in questione, estremo e particolare [i canti vi e xxxii–xxxiii del Purgatorio], ma in generale. La prima consiste nel pensare il Purgatorio divulgato a gruppi di canti e recante traccia di una composizione in momenti separati e in progressione che segue la discesa di Arrigo in Italia (l’attesa, la realizzazione, eventualmente la sua morte). La seconda ipotesi considera invece la cantica licenziata nella sua interezza, imponendosi però una regola: quella di un limite cronologico di coerenza, non superabile per i dati implicati, pena la contraddizione insanabile. Questa seconda soluzione deve, allora, trattenersi al di qua di una certa data, immaginando la varietà delle affermazioni riflettere la progressione dell’esperienza storica dell’uomo Dante in tempo reale o non troppo distanziato nella sua scrittura [. . .].

Ma esiste, come ho fin qui ripetutamente suggerito, una terza soluzione, capace di tenere insieme gli elementi di richiamo ad avvenimenti storici – soprattutto quelli non “in chiaro,” calati nel disegno della prolessi profetica – e le divaricate coerenze della realtà fattuale e dell’immaginazione letteraria [. . .]. Pubblicando le prime due cantiche nella loro interezza (insieme o, se separatamente, a relativa distanza come dichiarano gli indizi esterni di ricezione). Dante avrebbe collocato tutto ciò in un percorso solo apparentemente contraddittorio. Ovvero che contraddittorio risulta nell’analisi indiziaria del lettore di professione, che estrae e dispone i dati nella presunta coerenza assoluta della Storia e di un’idea di Dante, senza considerarli nella coerenza in sé del racconto.26

Infine, ho letto più volte le fini analisi di Emilio Pasquini su quella tipica modalità del comico dantesco che lo studioso chiama il “graduale compimento [. . .] di premesse o approssimazioni abbozzate in precedenza” o anche la “gradualità della visione (e della scrittura),” di cui riporto un esempio tra tanti:

È il caso dell’apparizione del mostro Gerione, dall’abisso che separa settimo e ottavo cerchio [. . .] Gerione è prima paragonato a un palombaro che si vede nella trasparenza dell’acqua risalire lentamente dal fondo [sc. in Inf. 16.130–136]. [. . .]. La descrizione di Gerione viene quindi ripresa daccapo con uno sguardo [End Page 127] che trascorre minuziosamente dall’inizio alla fine della figura, nella sua plurima e segmentata struttura: volto di uomo, fusto di serpente, branche di leone, coda di scorpione

(Inf. 17.1–27).27

Ma attenzione: non si pensi che il procedimento discusso da Pasquini riguardi solo le descrizioni, si tratta di un principio costruttivo che investe, con caratteristiche sostanzialmente identiche, più o meno tutti i punti a lungo rubricati come palinodie dantesche, inclusi passi ideologicamente cruciali. Mi limito a pochi esempi. La richiesta di Dante ma io perché venirvi? O chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono (Inf. 2.31–32) trova risposta piena solo nell’incontro con Cacciaguida (Par. 15.28–30), dove ciò che “in Inferno era già evidente ma sottinteso [. . .] viene enunciato a tutta voce e nel modo più solenne.”28

La misteriosa ruina di Inf. 5.34 si chiarisce solo alla fine dell’Inferno:

The Poet has plainly left us with a mystery, one that we shall have to hold in our reader’s memory and carry along in suspense, awaiting some possible enlightenment from a point further along [. . .]. The Poet could well have found some other way by which to disclose the time of the journey. But he chose the way we have now followed out, in a gradual revelation through form, the way of a revelation that begins with the little word ruina planted in Canto v [. . .]. Then [. . .] came the full awareness that was given us (at the third ruina), namely, the time of the journey through Hell, and from this, finally, the disclosure that the journey had required exactly the time that had passed between the evening of the Crucifixion and the morning of the Resurrection.29

La domanda, apparentemente svagata, Maestro, ove si trova / Flegetonta e Leté? Che de l’un taci, / e l’altro di’ che si fa d’esta piova (Inf. 14.130–132) è in funzione dell’insegnamento di Matelda (Da questa parte con virtù discende / che toglie altrui memoria del peccato; / da l’altra d’ogni ben fatto la rende [. . .], Purg. 28.127–129). Anche in questo caso, come osserva Harald Weinrich, si tratta di una scelta cruciale per la costruzione del percorso mnemonico-poetico di Dante:

Spostato [. . .] dall’inizio dell’Inferno, ove Dante già l’aspetta, alla fine del Purgatorio, il fiume dell’oblio non può ostacolare la memoria dei peccatori dell’Inferno e del Purgatorio, Dante compreso [. . .]. Prima di salire alle sfere del Paradiso le anime destinate alla beatitudine bevono l’acqua di questo [altro] fiume [sc. l’Eunoè, inventato da Dante] e riacquistano in questo modo la parte buona della loro memoria.30 [End Page 128]

Ancora: il pagano Ulisse, non riconosce nella “montagna, bruna / per la distanza,” ancorché altissima, la montagna del Purgatorio, che solo lettori cristiani del Purgatorio come Benvenuto da Imola o Landino saranno in grado di individuare (“Et hic nota quod hic erat mons Purgatorii et Paradisi terrestris, qui dicitur esse sub aequinoctiali, qui pertingit usque ad globum lunarem,” “Questa voglion molti che sia la montagna del purgatorio, et del paradiso terrestre, la quale dicono esser sobto la plaga equinoctiale, et tanto alta che aggiunga insino al cielo della luna [. . .]: et di questa diremo nel principio del purgatorio”). E solo nel Purgatorio, Virgilio sembra prendere coscienza “del limite spirituale suo e degli altri poeti e saggi pagani, che nel Limbo – privi della grazia divina – si adagiano nei ragionamenti a loro cari” (disiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto: / io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri).31

Allo stesso modo, la già citata profezia di Cacciaguida e, soprattutto, quella finale di Beatrice integrano e correggono la “gradualità della visione (e della scrittura)” di profezie precedenti, compresa quella di Inf. 19, riportata per intero nelle conclusioni di questo saggio:

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieniper la corona che già v’è sù posta,prima che tu a queste nozze ceni,sederà l’alma, che fia giù agosta,de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italiaverrà in prima ch’ella sia disposta.La cieca cupidigia che v’ammaliasimili fatti v’ha al fantolinoche muor per fame e caccia via la balia.E fia prefetto nel foro divinoallora tal, che palese e covertonon anderà con lui per un cammino.Ma poco poi sarà da Dio soffertonel santo officio: ch’el sarà detrusolà dove Simon mago è per suo merto,e farà quel d’Alagna intrar più giuso.

Par. 30.133–148.32 [End Page 129]

4. La necessità di una nuova datazione per l’inizio della Commedia

Chi abbia in mente anche solo a grandi linee il contenuto del Convivio e del De vulgari eloquentia non può negare che entrambi puntano, pur nei modi originali che solo il loro autore avrebbe potuto concepire e senza risparmio di energie, ad accreditare fuori di Firenze, dopo gli anni dell’impegno politico a tempo pieno, l’uomo di lettere Dante riciclando le sue passate esperienze di grande lirico: e questo per ricavarne, in un caso, l’occasione per un’enciclopedia in volgare, a vantaggio dei suoi aristocratici protettori; nell’altro, quella per una discussione di tipo scolastico in latino, in funzione di un pubblico di accademici e di borghesi colti.

Data l’intensità con cui Dante affronta entrambi gli esperimenti e soprattutto il colossale Convivio, non rimane, a mio giudizio, alcuno spazio per la non meno monumentale, ma affatto diversa, impresa della Commedia: che – pur ammettendo la persistenza del proposito di dire di Beatrice “quello che mai non fue detto di alcuna” (VN 42) e magari anche l’eventuale abbozzo, ancora a Firenze, di un poema paradisiaco in latino su Beatrice (così alcuni studiosi, a partire dall’epistola di Ilaro) – esigeva di essere immaginata, metabolizzata, progettata almeno per sommi capi e finalmente avviata dall’autore. Anche accettando la datazione tradizionale del Convivio, secondo la quale il trattato verrebbe messo da parte nel 1306, e non, come non solo a me pare più proba-bile, in data più bassa, questo non significa che Dante potesse iniziare immediatamente a lavorare alla Commedia. Che è poi, grosso modo, quel che pensava Barbi (circa 1307). Con tanti saluti all’originaria tesi di Petrocchi, che nel 1957 voleva l’Inferno iniziato nel 1304 e finito nel 1308, salvo le cosiddette revisioni, sicure per lui come, in anni più recenti, per Enrico Malato e Giorgio Inglese.

Ma non mi pare ci si possa fermare qui. Finora, la maggior parte degli studiosi ha lavorato alla datazione dei singoli canti della Commedia come se fossero i capitoli di una cronaca particolarmente sgangherata dei primi vent’anni del Trecento, cioè facendo leva per la datazione su ogni riferimento a fatti storici posteriori all’anno 1300 e dimenticando il fatto non trascurabile che si tratta del testo più costruito e ambizioso di Dante, forse la più vigile coscienza autoriale della tradizione occidentale.33 Si è poi dimenticato, e anche questo non sembra trascurabile, che [End Page 130] pure la data di inizio che va per la maggiore, 1306–1307, è assolutamente ipotetica. Per contro, i lavori citati nel paragrafo precedente, di cui ho ripreso solo qualche passaggio essenziale (ma altri indizi del genere si potrebbero aggiungere guardando alla folta produzione internazionale degli ultimi decenni) ci suggeriscono, se possibile, l’idea di una progettazione e di una scrittura della Commedia ancor più incredibilmente meditate e coese di quanto già non pensassimo.

Ora, per non citare che termini di confronto assolutamente ovvi, quando Dante e Petrarca scrivono – se si vuole, raccontano – la Vita Nuova e il Canzoniere, Beatrice e Laura sono morte. Quando Boccaccio struttura il suo Decameron, la peste nera c’è già stata. È pensabile che – al momento di realizzare una costruzione tanto più grandiosa, che poggia su un’infinità di echi, simmetrie, aggiustamenti di tiro, flashbacks, messe a fuoco successive – Dante cominci a scrivere nel 1306–1307? È pensabile, voglio dire, che dal 1307 al 1313 vada avanti alla giornata, accontentandosi di raccontare di volta in volta quel che succede, e che – nel comporre una storia così legata alla riprovazione di papi e principi contemporanei contrari al buono stato del mondo (ad bene esse mundi), e cioè all’armoniosa coesistenza del papa e dell’imperatore (Soleva Roma, che ’l buon mondo feo / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo. Purg. 106–108) – si metta in gioco come nuovo Enea o nuovo San Paolo quando niente fa realisticamente pensare, né a Firenze né in Italia né fuori, alla possibilità di un cambio di marcia o di una palingenesi? Davvero si può credere che Dante cominci a scrivere l’intreccio della Commedia senza uno straccio di fabula, cioè senza sapere, nemmeno a grandi linee, dove la storia del suo viaggio potrà andare a parare, per correggersi in modo radicale nel 1314–1315?

Mi pare che l’unica risposta ammissibile a queste domande retoriche sia: no. Anche chi non voglia dare troppa importanza a studi suggestivi, ma a tratti solipsistici, come quelli di Hardt sulle numerologie della Commedia, non può non convenire con quanto, sulla scia di un saggio di Weinrich, osserva Roberto Antonelli:

Se la Divina Commedia è un percorso mnemonico per tre grandi “luoghi” (le cantiche), a loro volta suddivisi in altri “luoghi,” occorreva che l’autore disponesse a priori un piano dettagliato dei luoghi, dei personaggi e delle azioni, degli incontri e dei racconti (con i relativi sentimenti implicati): un viaggio per tre “regni” legati da una corrispondenza e correlazione strutturale e semantica [. . .] doveva essere [End Page 131] concepito come un sistema legato da precise e quasi predeterminate, “necessarie” corrispondenze. Come in qualsiasi viaggio, le tappe e le soste dovevano essere programmate in anticipo almeno per le tappe fondamentali.34

Attilio Bartoli Langeli, che mi ha cortesemente segnalato il saggio di Antonelli, commenta, a mio avviso non implausibilmente: “Questo piano dell’opera Dante doveva non solo averlo in testa, come spiega Antonelli, ma vederlo scritto (da sé), magari su una pergamena appesa al muro.”35

Ma se la sostanza di queste ragionevoli ipotesi è vera (ovvero Dante ha progettato almeno a grandi linee la prima cantica e il seguito), quando avrà messo da parte il Convivio? Quando avrà cominciato a scrivere e magari anche a disegnare i suoi schemi? Nel suo commento alla molto controversa profezia su Clemente V di Inferno 19, Hollander ricorda che Stefano Giannini in “un saggio redatto quando era uno studente di dottorato alla Johns Hopkins University, ha esaminato tutti i riferimenti agli eventi accaduti dopo il 1300 che vengono fatti nell’Inferno. Dalle sue stime emerge quanto segue: la prima cantica contiene ventidue riferimenti ad eventi occorsi tra il 1300 e il 1304; quattro riferimenti ad eventi occorsi tra il 1306 e il 1309 (tutti compresi tra i Canti 26 e 29); e questo unico riferimento ad un evento occorso nel 1314.”36 Volendo proseguire su questa linea di ricerca, si potrà forse trovare, e aggiungere alla lista, qualche altro riferimento post 1304 databile con sicurezza anche in canti infernali meno lontani dal primo: per esempio, con Barbi, il preannuncio, già in Inf. 17.71–72, della morte di Giovanni Buiamonte Becchi, avvenuta nella seconda metà del 1310 (Vegna il cavalier sovrano / che recherà la tasca con tre becchi), che ritengo funzionale a confermare che chi racconta il viaggio ambientato nel 1300 ha il privilegio della profezia.

La sostanza del problema non cambia troppo: è normale che, man mano che un racconto procede, e scorre anche il tempo della scrittura, le prospettive temporali si dilatino e si intravedano elementi che allontanano dal punto di partenza dichiarato (nel nostro caso, secondo la ricostruzione che pare più attendibile, sette giorni a partire dal Venerdì Santo del 1300). Ma quanto di questo “procedere” della storia sarà reale e quanto fictio letteraria (come, ad esempio, i sonetti di anniversario disseminati da Petrarca)? E tuttavia, se lasciamo da parte il caso, particolarissimo, di Inferno 19, sul quale torneremo, i riferimenti temporali [End Page 132] appena ricordati (cioè l’insieme dei fatti storici sicuramente noti a Dante nell’Inferno) sembrano indirizzarci oltre il 1309.

Non pochi dantisti del primo Novecento pensavano che l’inizio del lavoro alla Commedia cadesse addirittura dopo la morte d’Arrigo, ma l’argomento barberiniano (cioè le allusioni all’Inferno contenute nella postilla di Francesco da Barberino e riportate anche nel passo di Folena citato sopra) ha reso questa tesi insostenibile.37 Peraltro, come ha scritto un grande esperto di indagini indiziarie, Arthur Conan Doyle, “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, è la verità.” A mio parere, una cronologia accettabile dovrebbe soddisfare due condizioni: primo, consentire che, già prima di cominciare a scrivere l’Inferno Dante potesse conoscere e inserire in un progetto di massima tutti gli elementi storici esplicitati nella narrazione così come noi la leggiamo; secondo, lasciare “volger gli anni,” cioè prevedere un intervallo tale da consentire, in accordo con i dati sulla prima diffusione, che buona parte dell’Inferno potesse essere terminata nel 1314 e che la prima e la seconda cantica fossero già finite nel 1315–1316. Registro quindi come un molto ragionevole punto di partenza la data 1308 sulla quale convergono, per lo più indipendentemente, Bruno Nardi, Francesco Mazzoni, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Elisa Brilli, Giuliano Milani e Giorgio Inglese.

Nardi, uno dei maggiori studiosi della filosofia medievale e del pensiero dantesco, ritiene che la “visione della Commedia” non possa essere stata concepita da Dante “prima del 1308.”38 E ribadisce, in un altro saggio:

Se la visione dantesca è stata fissata intorno alla Pasqua del 1300, la narrazione invece di quel che il Poeta vide s’impernia tutta quanta sul passato remoto; il qual passato remoto, secondo la mia convinzione, indica un periodo di almeno otto anni trascorsi dopo il 1300; anzi per alcune parti del poema o per alcuni eventuali ritocchi, un periodo assai superiore.39

Così (“ad esso poema Dante era venuto lavorando, interrotto il Convivio, a partire dal 1308”) anche Mazzoni, che insiste sul fatto che

le connessioni tra l’ordinamento morale dell’Inferno e il pensiero politico-religioso dell’Alighieri, quale si veniva concretando e determinando (dopo il Convivio) attraverso le riflessioni poi maturate nella Monarchia, sono insomma assolutamente evidenti; anche se [. . .] non sempre la moderna critica ha saputo istituire un [End Page 133] circolo vitale di pensiero e d’esegesi tra l’opera maggiore e i trattati etico-politici di Dante.40

Nel suo commento mondadoriano la Chiavacci Leonardi aderisce di norma alle datazioni riproposte da Quaglio, ma nella Cronologia e nelle Note integrative al primo canto – cioè, presumo, verso la fine del suo lavoro – sembra ricredersi e suggerire, sia pure dubitativamente, che l’Inferno sia stato “scritto per intero” tra il 1307 e il 1309:

1308–1309. Soggiorno a Lucca [. . .]. In questo primo settennio dell’esilio si colloca, oltre a un primo gruppo di Rime, la composizione del De Vulgari eloquentia (1303–1304), del Convivio (1304–1307), e infine dell’Inferno, che per ragioni interne è da ritenersi scritto per intero entro il 1309. Queste date sono da considerarsi comunque come probabili, ma non assolutamente certe.41

Le Note integrative alla profezia del Veltro (Inf. 1.101), di nuovo molto prudenti, sembrano confermare che la studiosa non escludeva la possibilità di una composizione del primo dell’Inferno abbassata tra il 1308 e il 1309:

Che Dante avesse in mente un nome preciso, e cioè Arrigo VII (l’elezione di Arrigo è del 27 novembre del 1308, quindi ben vicina alla probabile datazione di questo canto) [. . .] appare possibile, specie se si hanno presenti le Epistole che egli scrisse in occasione della sua venuta. Ma poiché il linguaggio di tutto il passo è volutamente oscuro, è del tutto inutile ai fini dell’intelligenza del testo pretendere di poterlo individuare.42

Sono fondate su linee argomentative simili la proposta di datazione al 1308 di Brilli e Milani – solo accennata, si direbbe sulla base della contiguità tematica della Commedia con varie epistole – e l’ipotesi, rilanciata da Giorgio Inglese, che

l’idea di un poema “virgiliano” che annunciasse agli uomini il termine della notte (“nos gaudium expectatum videbimus, qui diu pernoctavimus in deserto . . .”) si sia formata dopo la morte di Alberto, o dopo l’elezione di Enrico: comunque tra l’estate del 1308 e i primi mesi del 1309.43 [End Page 134]

5. Un’ipotesi alternativa: il 1310

Penso che il 1308 sia un buon punto di partenza, ma non d’arrivo, perché negli otto anni che vanno dal 1300 al 1308 Dante ne aveva viste fin troppe e non pare francamente verosimile che la morte di Alberto tedesco, che aveva colpevolmente abbandonato al suo destino (diserto) l’Italia, sia stata una molla sufficiente per motivarlo all’alta impresa. Come risulta già dall’eloquenza visionaria dell’Epistola 5, del settembre-ottobre 1310 (Ecce nunc tempus acceptabile [. . .]. Letare iam nunc miseranda Ytalia [. . .], quia sponsus tuus [. . .], clementissimus Henricus, divus et Augustus et Cesar, ad nuptias properat), dall’Epistola 6 contro i Fiorentini, del 31 marzo 1311, dall’Epistola 7, del 17 aprile 1311, in cui ricorda l’incontro con l’imperatore, e poi dalla Monarchia (ante agosto 1313?), ben altro impatto dovette avere invece sul poeta la notizia della piuttosto rapida elezione di Enrico di Lussemburgo (novembre 1308), della sua incoronazione (gennaio 1309) e soprattutto della decisione del neoeletto Enrico VII di dirigersi celermente verso l’Italia per esservi consacrato dal papa (estate 1310), differenziandosi in questo nettamente dai suoi tre predecessori, Ridolfo e Andolfo e Alberto, incoronati ad Aquisgrana, ma senza aver poi ottenuto, a Roma, la pienezza della potestà imperiale.44 Tale differenza risulta decisiva, come lo stesso Dante sottolinea in un noto passo del Convivio:

Dico adunque: “Tale imperò,” cioè tale usò l’officio imperiale: dove è da sapere che Federico di Soave, ultimo imperadore delli Romani – ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti siano, appresso la sua morte e delli suoi discendenti –, domandato che fosse gentilezza, rispose . . .

(Conv. 4.3.6).

Ritengo insomma che Dante abbia cominciato a lavorare al suo nuovo e straordinario progetto sull’onda dell’entusiasmo e delle prospettive suscitati dall’ “alto Arrigo, ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta” (come suona, quasi alla fine del poema, l’altissimo consuntivo di Par. 30.137–138), ovvero in un periodo di tempo non anteriore alla metà del 1310: non troppo tempo dopo aver ripreso la penna in mano per portare a termine, o forse meglio scrivere, oltre alle appena citate Epistole, tutto quanto il quarto libro del Convivio: dove, tra l’altro – a detta dello stesso Nardi – Dante mostra di aver finalmente raggiunto il “perfetto dominio dell’arte del loicare” (come nella posteriore, ma [End Page 135] non troppo, Monarchia) e dove troviamo il primo nucleo delle idee sulla natura provvidenziale dell’impero e sulla storia della gloriosa Roma che doveva esserne sede.45 E non si dimentichi che ancora in Convivio 4.26.8 (cioè a quattro capitoli dalla fine del quarto libro) Dante rinvia al settimo libro (avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto nel settimo trattato si dicerà), cioè sta pensando di lavorare ancora per parecchio tempo al trattato enciclopedico.

In altre parole: credo che quando inizia a scrivere la Commedia, che è “in primo luogo un racconto,” come ci ha ricordato Casadei, e anzi, almeno in qualche misura, un particolarissimo bildungsroman, Dante sappia già, anzi non possa non sapere, tutto quel che è successo fino al 1310 e possa fare la storia così delle “speranze 1304–1307” come delle “delusioni 1308–1309.”46 Non occorre aggiungere che, perché il racconto funzioni anche quando il quadro storico si modifica radical-mente (morte di Arrigo VII, morte di Clemente V, etc.), l’autore dovrà continuare a salvaguardare quelli che appaiono i fondamentali criteri costruttivi della narrazione:

  1. 1. il rispetto del tempo della storia (fissato attorno alla Pasqua del 1300);

  2. 2. la regola della presbiopia, per cui i personaggi possono vedere profeticamente nel tempo lontano (superato, in alcune profezie, già nel momento della scrittura, che nella mia ipotesi non è mai anteriore al 1310) e non sanno quel che sta per succedere;

  3. 3. il progressivo acuirsi della visione, specialmente (ma non solo) rispetto ai limiti del pagano Virgilio, man mano che il personaggio Dante si avvicina all’Empireo.47

Naturalmente, quest’ipotesi non ignora né vuole minimizzare le differenze di tono e di contenuto avvertibili in canti del Purgatorio e del Paradiso, che sembrano riferirsi, sia pure in modo vago e allusivo, ad avvenimenti accaduti dopo il 1310. Come ho già accennato, una volta che, nell’agosto 1313, Arrigo muore, nessuno (e tanto meno Dante) potrebbe attenersi in maniera meccanica al “progetto” del 1310. Ma nel 1313 il lavoro è già bene avviato e occorre solo aggiustare il tiro nel rispetto dei criteri costruttivi ricordati sopra. Parafrasando un’osservazione di Vescovo, non è necessario né ragionevole arrivare, come si è fatto nel primo Novecento, a supporre una scrittura del poema rapidissima e tutta collocata dopo il fallimento e la morte di Arrigo, quanto ipotizzare – nel completamento delle prime due cantiche e soprattutto della [End Page 136] seconda – una ridefinizione del progetto in corso causata da quell’evento centralissimo, per ridisegnarne la coerenza complessiva.48 Con le parole dello stesso Vescovo:

Le analessi esplicite apparirebbero di conseguenza [. . .] non i semplici tratti di penna attraverso cui la scrittura tradisce involontariamente il tempo della propria composizione, ma gli estremi precisamente escogitati in una proiezione ulteriore, volta all’indietro, rispetto al tempo del racconto [. . .]. Che la profezia del Paradiso appaia “in chiaro” sembra una conferma ulteriore di questo percorso, in cui gli eventuali capitoli taciuti o propriamente sottoposti a “censura”, rimozione o silenzio – la sconfitta e la morte di Arrigo VII, anzitutto – vengono narrati esplicitamente e “messi in chiaro” nelle tappe finali del viaggio, ove tutto nella luce del Paradiso diventa leggibile e, insieme, svanisce.49

Detto più banalmente – se si escludono la solita (e per molti solo apparente) eccezione di Inf. 19 e la finale profezia “in chiaro” di Beatrice –, tutto quel che succede negli anni successivi alla morte dell’imperatore non traspare né alla fine del Purgatorio né in gran parte del Paradiso, scritti certamente dopo, ma viene come risucchiato in una specie di buco nero. Ciò vale, in particolare, per la profezia di Purg. 23.106–111 o per l’apostrofe “Ma tu che sol per cancellare scrivi” di Par. 18.130: arrivato a quei punti del poema è difficile che Dante non avesse in mente la disastrosa sconfitta dei fiorentini a Montecatini del 29 agosto 1315 o le scomuniche inflitte da Giovanni XXII ai vicari imperiali negli anni 1317–1319, ma quel che arriva ai lettori meno provveduti è, in un caso, una tipicissima “narrazion buia,” che annuncia una punizione divina che colpirà le donne fiorentine prima che le guance impeli / colui che mo si consola con nanna, ossia circa 14 anni dopo il 1300; nell’altro, una apostrofe contro non meglio precisati pastori o tutt’al più l’ennesima sfuriata contro il papa regnante nel 1300, cioè il vituperatissimo e da tempo defunto Bonifacio VIII.50

6. Composizione versus pubblicazione

Spendo qualche parola sulla cosiddetta pubblicazione delle prime due cantiche, a proposito della quale alcuni studiosi mostrano di nutrire aspettative singolari. Come subito vedremo, Enrico Malato distingue puntigliosamente tra pubblicazione e anticipazioni: [End Page 137]

Composti in un lasso di tempo approssimativamente circoscrivibile, si è visto, al 1306/1307–1309 l’Inferno, al 1309/1310–1312/1313 il Purgatorio, le due cantiche sarebbero state “pubblicate” dal poeta intorno al 1312/1313–1314: e se tale passo è stato compiuto dall’autore, come appare probabile, non è verosimile che non sia stato preceduto da una revisione e una “sistemazione” generale della materia prima della immissione nei circuiti librari. Ciò non vuol dire, ben inteso, che singoli canti e gruppi di canti non possano aver circolato nell’àmbito ristretto di amici ed estimatori del poeta, ma senza che tali “anticipazioni” assumessero il valore (e gli effetti) di una pubblicazione, come pare confermare l’esperienza del Paradiso.51

Anche Giorgio Inglese ha idee molto precise in materia:

A proposito delle cantiche dantesche, il termine ‘pubblicazione’ si usa in senso piuttosto largo. Per un verso, come abbiamo visto, è probabilissimo che Dante rendesse ‘pubblici,’ in una cerchia di lettori amici (ad esempio Dino Frescobaldi, Francesco da Barberino), gruppi di canti, in quaderni che potevano generare un discreto numero di copie. Ma a una ‘pubblicazione’ della cantica, in senso stretto, avrebbe dovuto corrispondere un atto in qualche modo formale, come la presentazione a un dedicatario (esigenza confermata dal documento ilariano, nel momento stesso in cui la dedica a Uguccione si mostra scarsamente credibile), o una lettura solenne, come quella di cui godé la mussatiana Ecerinis nel 1315.52

Se è vero che alcune opere medievali conoscono una qualche forma di “edizione,” mi pare che entrambe le posizioni siano ingenue e anacronistiche e ancorate a una percezione tardonovecentesca delle varie fasi di una scrittura accademica, con scrupoli e ansie da prestazione tipiche di un redattore o dell’addetto stampa di una casa editrice. Ora, come mostrano le così diverse storie testuali delle opere di Dante, dalle Rime alla Vita Nuova, dal Convivio al De vulgari eloquentia, dalla Monarchia alla Commedia, la parola “pubblicazione,” riferita a un’opera del tempo di Dante e almeno fino all’età di Castiglione e Machiavelli (ma anche di Tasso, che se ne disperava), non può avere altro significato che quello, ovvio in epoca pregutenberghiana, di “trasmissione a uno o più lettori,” di regola senza che l’autore possa avere il minimo controllo su ulteriori vicende della diffusione.53

Il fatto che tra il giugno 1314 e l’aprile 1315 Francesco da Barberino abbia (così interpreto i suoi accenni) sentito parlare dell’Inferno e che nel 1315–1316 iscrizioni e volgarizzamenti tradiscano una conoscenza dell’Inferno prima, di tutto il Purgatorio poi, fa pensare appunto a una pubblicazione nel senso pregutenberghiano appena precisato, [End Page 138] necessariamente anteriore ai rispettivi terminus ante quos, sebbene non sia possibile precisarne la cronologia. Inoltre, nonostante le prese di posizione appena riferite, ritengo indubbio che, in corso d’opera, Dante abbia ripetutamente trasmesso gruppi di canti a ristrettissime cerchie di amici e protettori e che qualcuno di questi amici e protettori sia arrivato a completare, prima del 1321, la raccolta delle prime due cantiche. Un sonetto di Iacopo Alighieri del primo aprile 1322 ci assicura che, com’era ovvio, a quella data l’ospite ravennate di Dante, Guido Novello da Polenta, dispone dell’intero poema.54 Credo inoltre che il sonetto di Giovanni Querini nel quale l’amico veneziano di Dante chiede a Cangrande di consentire agli ammiratori del poeta di “veder la gloria santa / del Paradiso che il poeta canta” sia un’importante conferma, in data molto alta (post settembre 1321, ma ante 1329, quando Cangrande muore), del fatto che Dante abbia davvero dedicato o avuto intenzione di dedicare a Cangrande la terza cantica, come si legge nella controversa, ma oggi forse troppo svalutata, Epistola 13 (Comedie sublimem canticam que decoratur titulo Paradisi [. . .] vobis ascribo, vobis offero, vobis denique recommendo).55 Sospendo invece il giudizio riguardo alle altre cantiche, perché non sono altrettanto convinto della fondatezza delle dediche suggerite nella lettera di frate Ilaro, sulla quale fervono le discussioni.56 Tuttavia, è un fatto che:

  1. 1. La tradizione veneta più antica della Commedia oggi disponibile, non rigogliosissima, sembra d’importazione, cioè dipendente da esemplari fiorentini o emiliano-romagnoli.57

  2. 2. Mentre è “pressoché sicuro che tra la fine del 1319 e la prima metà del 1320, il Paradiso non sia stato divulgato per intero,” l’ampia tradizione manoscritta giunta fino a noi (più di ottocento manoscritti se teniamo conto anche degli oltre duecento frammenti di poche carte, almeno cinquecento ottanta se ci concentriamo su quelli tendenzialmente completi) non serba alcuna traccia di questa circolazione parziale, per gruppi o per cantiche, di una ur-versione dell’Inferno e del Purgatorio.58

In effetti, la tradizione sembra discendere tutta da un antichissimo archetipo emiliano-romagnolo dell’intera Commedia, che è difficile non ricondurre a iniziative editoriali ancora ravennati dei figli di Dante, intraprese a ridosso della morte del poeta.59 [End Page 139]

Nel rigettare con un po’ di irruenza la nota tesi di Giorgio Padoan sulla diffusione a blocchi del poema, Inglese mette insieme problemi e argomenti diversi e di valore disuguale:

Sull’effettivo contenuto dei “quadernucci” [contenenti, secondo Boccaccio, canti singoli o gruppi di canti] è pero vano fantasticare, a meno che non si assuma per principio che “Dante non modifica[va] più i versi che della Commedia veniva via via pubblicando” (Padoan, 1993, 40); e che, si aggiunga, egli scriveva i canti in ordine, dal primo all’ultimo. Entrambi i principi sono irrealistici, considerando ciò che sappiamo del comporre letterario in tutti i tempi e luoghi, e infatti rispondono, in chi li professa, a un’idea in buona sostanza mistica, per non dire superstiziosa, della scrittura dantesca.60

Sospendo per un attimo il giudizio sull’idea di Giorgio Padoan, e poi di Emilio Pasquini, John Scott e altri, che Dante non si correggesse e, anche se non sono sicuro di trovare invidiabili le certezze di Inglese sul “comporre letterario in tutti i tempi e luoghi,” mi dichiaro senz’altro d’accordo sull’aggiunta, cioè sull’ordine di composizione dei canti. Anche alla luce di quel che collettivamente abbiamo imparato sul “montaggio” della Vita Nuova e di quel che Domenico De Robertis ci ha insegnato sul “farsi” del Canzoniere di Petrarca, pare difficile pensare che un grande costruttore di strutture complesse e di simmetrie sottilissime come il Dante della Commedia dovesse necessariamente scrivere i “canti in ordine, dal primo all’ultimo.”61 Nella più totale assenza di documentazione in materia, non è evidentemente ragionevole spingersi troppo avanti su questa strada, ma la semplice circostanza che gli indizi dell’avvenuta “pubblicazione” del Purgatorio seguano di (troppo) pochi mesi quelli della diffusione dell’Inferno rende difficile non immaginare una qualche sorta di partita doppia. Si potrebbe forse pensare (mi affretto ad avvertire che questa digressione non rafforza né indebolisce l’ipotesi sull’avvio della composizione della Commedia, oggetto di questo saggio) che a un determinato blocco infernale, mettiamo 1–16, facesse seguito un blocco purgatoriale grosso modo della stessa consistenza. Si spiegherebbero così, in un modo molto semplice, le impressionanti corrispondenze tra canti di cantiche diverse con lo stesso numero d’ordine via via segnalate dai dantisti – studiate oggi in modo sistematico dai colleghi angloamericani nelle cosiddette letture verticali (vertical readings) – e anche l’esistenza e la persistenza di verosimili miti eziologici come quelli boccacciani sui primi canti dell’Inferno e sugli ultimi [End Page 140] del Paradiso, che si è invogliati a ricondurre a eventuali sopravvivenze, ancora nel secondo Trecento, di qualcuno di questi gruppi di canti, ma che la dilagante tradizione unitaria diffusa dopo la morte di Dante avrebbe finito per cancellare.62

Per concludere, potremmo spiegare così anche il fatto che, a relativamente breve distanza dai primi indizi certi di ricezione dell’Inferno (metà 1314), si trovino prove non meno sicure di una sopraggiunta diffusione del Purgatorio (1315–1316) e la curiosa presenza del primo o dei primi canti del Purgatorio accostato a canti infernali tanto in un Memoriale bolognese del 1319 quanto nelle chiose, che potrebbero essere molto antiche, al volgarizzamento B dell’Ars amandi e dei Remedia amoris di Ovidio, edite da Vanna Lippi Bigazzi e prese in esame come testimonianze della circolazione del poema da Indizio, di cui più sotto.63 Non occorre aggiungere che un simile, molto naturale modo di comporre potrebbe dare ragione anche di certe asimmetrie cronologiche dibattutissime per cui certi canti infernali (e in particolare il canto 19) sembrerebbero far riferimento a eventi più recenti dell’intero Purgatorio.

7. Correzioni d’autore?

Come si è anticipato, Petrocchi e, sulla sua scia, Malato, Inglese e altri suppongono che Dante avesse bisogno di un paio d’anni per “correggere” e aggiornare le prime due cantiche, ma, come ha ricordato Scott, non esiste alcuna prova concreta che Dante abbia mai intrapreso una revisione dell’Inferno, e, tanto per l’Inferno quanto per il Purgatorio, “l’onere della prova è a carico di chi avanza una congettura.”64

Anch’io credo, per vari motivi, che l’ipotesi di significative revisioni dell’Inferno e al Purgatorio sia poco probabile. Per cominciare, considerazioni generali di ordine metrico e culturale contraddicono tale ipotesi. È infatti nozione comune che, a differenza di metri “aperti” come l’ottava o la canzone (per cui è facile citare le strenue “correzioni” di Petrarca e di Ariosto), la terzina dantesca sia massimamente refrattaria così all’interpolazione come alla correzione d’autore.65 Vedere per credere la relativa esiguità dei “pentimenti” del pur incontentabile Petrarca nell’abbozzo autografo del Triumphus Cupidinis, dove, se la prima rima di una serie non è modificata currenti calamo, nella fase della prima stesura (quand’io vidi un’angelica fanciulla > quando una giovenetta ebbi dallato), il [End Page 141] poeta è condannato a preservare il più possibile dell’impianto preesistente (per esempio, Io prego giorno e notte ed ella tace / ed a gran pena i miei sospiri ascolta > Io prego giorno et notte (o stella iniqua!) / ella a gran pena i miei sospiri ascolta; etc.).66

Ma non è finita. Come ha ammonito Gianfranco Contini, “il quarantennio che separa Victor Hugo da Mallarmé o, se vogliamo citare merci nostrane, Pascoli da Montale” è un “valloncello ameno” rispetto all’abisso che “si sprofonda” tra Dante e Petrarca a soli “anagrafici anni quaranta di distanza.”67 Per non citare che un paio di aspetti essenziali, come anche le sbalorditive traduzioni-versificazioni da testi molto noti – i Vangeli o Orosio o Virgilio – dimostrano (la tua loquela ti fa manifesto < loquela tua manifestum te facit, che succedette a Nino e fu sua sposa < Huic [Nino] mortuo Semiramis uxor successit; Tu vuoi ch’io rinovelli / disperato dolor < infandum, regina, iubes renovare dolorem), Dante fa ancora parte di un sistema culturale fondato sulla lettura intensiva di (relativamente) pochi testi; Petrarca è invece tra i primi che inaugurano la stagione dell’accumulo e della bulimia bibliografica che, nel giro di pochi secoli, porteranno alle biblioteche di Hernan Colón e del cardinal Grimani e poi al collezionismo librario di sir Thomas Phillips, Bertram Ashburnham e tanti altri.

Ancora, Petrarca e Boccaccio sono, in volgare, tra i primi esponenti degli scrittori che correggono i loro autografi, mentre, come mi scrive un maestro come Attilio Bartoli Langeli, ripercorrendo l’essenziale di una bella conferenza perugina del 2021, sembra che Dante pertenga ancora all’ “età del dictare e della memoria:”

I miei argomenti sono tutti astratti, niente di empirico, di solido, di verificabile. L'età di Dante è ancora un’età del dictare e della memoria. Doveva essere un versificatore a braccio formidabile. Atti di scrittura, sicuramente ce ne furono da parte sua; ma non la scrittura continuata e “pulita” di un testo lungo. Di scrivani ne aveva a disposizione quanti ne voleva, ma soprattutto due: Pietro e Iacopo. Sono loro i suoi secretarii; sono loro che completarono la trascrizione del Paradiso, sono loro che diedero il via alla tradizione. Mi accontenterei del fatto che, almeno, affermazioni o meglio impressioni del genere non abbiano controprove.68

Mi pare notevole che almeno un altro maestro della passata generazione, Emilio Pasquini, fosse convinto che in più di qualche caso Dante dettava: [End Page 142]

Aggiungo in calce la mia persuasione che almeno alcuni canti non siano mai stati scritti dall’autore, ma da lui dettati a copisti per passione, amici o protettori, secondo una prassi millenaria che va da Cicerone ai nostri umanisti del Quattrocento.69

Non mi soffermo sul fatto ben noto che – come altri scrittori del suo tempo – Dante distingue spesso, nelle sue opere, tra il ruolo del dettatore e quello dello scriba (si pensi almeno a Purg. 24.58–60 e a Mon. 3.4.11). Riconosco che il fatto di dettare un testo lungo non impedirebbe di tornare sulla pagina scritta da altri e correggerla, ma l’ipotesi della dettatura evoca un mestiere svolto in condizioni diverse da quelle per noi abituali e sposta, mi pare, una grossa parte del lavoro compositivo e variantistico dalla pagina scritta (come avviene da Petrarca al Novecento) alla mente del dictator.

Riconosco inoltre che queste considerazioni di ordine culturale non sono incontrovertibili e vengo alla ragione di fondo. Se la cronologia tradizionale per cui Dante inizierebbe a lavorare all’Inferno e al Purgatorio giunti fino a noi nel 1306–1307 ci obbliga a fronteggiare una piccola serie di incongruenze cronologiche o culturali e a ipotizzare una successiva revisione o una pubblicazione a puntate, il problema non si pone con la datazione da me ipotizzata.70 Infatti, se ammettiamo che Dante avesse lavorato nei modi ma soprattutto nei tempi appena suggeriti, cioè a partire dal 1310, non è facile vedere quali sarebbero dovute essere le correzioni di Dante all’Inferno negli anni 1314–1315 né perché avrebbe avuto necessità di correggere i gruppi di canti già diffusi. Soprattutto per questo, tendo ad escludere, salvo marginalissime eccezioni (come, ad esempio, i pochi segni di espunzione che si trovano concordemente nei manoscritti Florio e Urbinate) che il Dante della Commedia abbia sentito il bisogno di correggersi in fasi successive a quelle della stesura.71

8. A mo’ di conclusione

Come ho già accennato, l’unico passo che potrebbe confliggere con la cronologia da me proposta, che presuppone un’unica fase di stesura (senza revisioni), è quello già ricordato di Inferno 19. Con una “straordinaria invenzione,” citando le parole di Pasquini, Dante fa in modo che Niccolò III, papa dal 1277 al 1280, il quale involontariamente ha [End Page 143] già predetto l’arrivo di Bonifacio VIII, morto nell’ottobre 1303 (sé tu già costi ritto, Bonifazio?), profetizzi che, dopo Bonifacio, arriverà tra i simoniaci un papa di più laida opra.72

Di sotto al capo mio son li altri trattiche precedetter me simoneggiando,per le fessure de la pietra piatti.Là giù cascherò io altresì quandoverrà colui ch’i’ credea che tu fossiallor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossie ch’i’ son stato così sottosopra,ch’el non starà piantato coi piè rossi:ché dopo lui verrà di più laida opradi ver’ ponente, un pastor sanza legge,tal che convien che lui e me ricuopra.Novo Iasón sarà, di cui si leggene’ Maccabei; e come a quel fu mollesuo re, così fia lui chi Francia regge.

(Inf. 19.73.87)

I soli accenni alla sua accondiscendenza con chi Francia regge basterebbero a identificare il pastor senza legge con Bertrand de Got, ossia Clemente V, nato circa nel 1264, papa dal giugno 1305 e morto il 20 aprile 1314, otto mesi dopo Arrigo VII. Dicendo all’ingrosso “Bonifacio non starà a sgambettare fuori dal pozzo più tempo di me,” Niccolò, che ha passato vent’anni all’inferno, prevede che ci vorranno meno di vent’anni dall’arrivo di Bonifacio nel 1303 perché Clemente muoia e prenda il suo posto.73 Gli studiosi si dividono quindi tra chi ritiene che si tratti di una profezia post eventum, con o senza la necessità di un ritocco al testo da parte di Dante (per esempio, Vandelli, Petrocchi e, più recentemente, Chiavacci Leonardi, Indizio, Inglese, Bellomo, Villa) e chi ante (Parodi, Egidi, Torraca, Hauvette, Sapegno, Chimenz, Scott, Pasquini, Potestà, Tavoni, Casadei).74 Come è stato ripetutamente osservato (e come anch’io credo, pur ritenendo molto suggestivi i riscontri di Villa tra la presentazione infernale del papa “senza legge” e documenti a larga diffusione come le bolle pontificie che condannavano i Templari, del 1312), la predizione non doveva “parere troppo rischiosa se si pensa alle infermità che travagliavano Clemente.”75 In effetti, se la profezia “scade” nel maggio-giugno del 1323, il margine di sicurezza che Dante si riserva [End Page 144] per essere sicuro di indovinare il decesso di un coetaneo sofferente di ulcera, le cui condizioni di salute si sarebbero “di molto aggravate a partire dall’aprile del 1312” e che sarebbe morto, pare, di cancro allo stomaco, non è in alcun caso inferiore a una decina d’anni.76

Come ho già anticipato, credo insomma che Dante abbia cominciato a lavorare alla Commedia verso la metà del 1310,77 galvanizzato dalla politica di Arrigo VII, e che dopo la morte dell’imperatore, cioè a poema ben avviato, abbia continuato a scrivere, fino alla profezia di Beatrice, come se Arrigo fosse stato ancora vivo al momento della scrittura. Ritengo inoltre almeno possibile che, dopo aver scritto seriatim una buona parte dell’Inferno, abbia iniziato a scrivere a blocchi, partendo dal primo canto, la seconda cantica; tuttavia, anche se certi gruppi di canti riflettono vistosamente un disegno unitario, non mi pare si possa stabilire la consistenza precisa di questi blocchi.

Per quanto riguarda invece la fine della prima cantica, il pur dibattutissimo argomento barberiniano dimostra a mio giudizio soltanto che, tra l’estate del 1314 e i primi mesi del ’15, qualcuno (forse, ma non necessariamente lo stesso Francesco da Barberino, che mette in circolo l’informazione), oltre a sapere che Dante ha scritto de infernalibus, aveva certamente letto Inferno 1 e 2 e pertanto non sembra ostare a questa ipotesi complessiva.78 Inoltre, non mi pare necessario prendere posizione qui sui rapporti intertestuali individuati da vari studiosi (tra cui Padoan e Casadei) tra l’Inferno e alcune rime di Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia e Sennuccio dal Bene, che mi sembrano, per non dire altro, di consistenza disuguale e, a eccezione dei componimenti in morte di Arrigo o di Dante, di cronologia non sicura.

È ancora diverso, ma forse più utile ai nostri fini, il caso delle chiose B al volgarizzamento di Ovidio, Ars amandi e Remedia Amoris. Mentre varie glosse alle due opere citano esplicitamente e a volte imitano un po’ tutto l’Inferno e i primi tre canti del Purgatorio (“onde dice Dante,” “dice Dante,” “Dante nostro dice”), una glossa ai Remedia cita Arrigo VII vivo e in Italia.79 In ossequio alla datazione vulgata dell’Inferno, il maggior conoscitore dei volgarizzamenti italiani di Ovidio nonché eccellente editore delle Heroides del Ceffi, Massimo Zaggia, ritiene “imprudente” estendere la datazione 1313 a tutte le annotazioni e in particolare a quelle con le citazioni dantesche e suggerisce del tutto ragionevolmente che varie glosse “possano essere state aggiunte nel corso della tradizione manoscritta.”80 Ma le due serie di chiose, anche culturalmente affini, [End Page 145] sono connesse da qualche rinvio interno (per esempio, nei Remedia: Leggi le nostre Arti, cioè ne l’Ovidio dell’Arte nel principio, ivi dove [. . .] dice: “tu ora lento sollazzati [. . .]”);81 e la loro relativa compattezza stilistica, che implica, come si è accennato, il riuso di tessere dantesche a fini di ornato, rende, almeno a mio giudizio, un po’ meno probabile che le glosse del perduto antigrafo risalgano a più strati di postille scalate nel tempo.82 Esse sembrano suggerire piuttosto l’idea di un’acerba, ma ambiziosa e forte personalità autoriale.83 Inoltre, la stessa attribuzione ad Andrea Lancia, avanzata dall’editrice, non sembra inverosimile.84

Resta che la tradizione manoscritta in parte diversa delle due opere e certi scarti nel modo di citare e nelle citazioni (nei Remedia, le Heroides, citate per numero, sono quelle del Ceffi; nell’Ars sono di diversa tradizione) dovranno pur spiegarsi in qualche modo: verosimilmente, con tempi di composizione diversi. La copia più genuina per la sola Ars è il manoscritto Parigi, Bibliothèque nationale de France, it. 591, copiato a Firenze nella prima metà del Trecento, e forse non oltre il 1330, “secondo il me todo di copia a fascicoli sciolti” da sei copisti, tra i quali, in funzione anche di revisore, appunto Andrea Lancia.85 Le uniche copie complete di Ars più Remedia sono invece i manoscritti Firenze, Biblioteca Riccardiana, MS 1543, del quindicesimo secolo, e Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, MS it. IX, 326, composito del terzo quarto del quattordicesimo secolo, dove il volgarizzamento B dell’Ars e dei Remedia e quello dell’Epistola 7 di Dante, di una sola mano, sono seguiti dal volgarizzamento, di mano diversa, delle Heroides, acefalo, ma nella redazione del Ceffi.86 Non occorre dire che se (e sottolineo se) nel perduto exemplar dei Remedia la postilla su Arrigo VII vivo e in Italia, cioè dopo il giugno 1312, ma prima dell’agosto 1313 (Che fa ora lo ‘mperadore Errigo di Luximborgo? etc.), fosse dello stesso tempo delle citazioni dantesche, dovremmo estendere a tutta la prima cantica e ai primi tre canti della seconda un terminus ante quem di qualche mese più alto di quello ricavabile dall’argomento barberiniano e pensare perciò che nella prima metà del 1313 l’Inferno fosse già finito.87

Notes

* Sono molto grato ad Attilio Bartoli Langeli, Lucia Bertolini, Gino Belloni, Claudio Ciociola, Giuseppe Indizio, Mirko Tavoni, Piermario Vescovo e Claudia Villa per la loro lettura di una prima stesura di queste pagine e per i loro suggerimenti. Ringrazio anche tutti gli intervenuti alla discussione in academia.edu, specialmente Alberto Casadei, e, infine, i revisori anonimi di questa rivista.

1. Nell’ordine: Ernesto G. Parodi, “La data della composizione e le teorie politiche dell’Inferno e del Purgatorio di Dante,” in Poesia e storia nella “Divina Commedia,” a cura di Gianfranco Folena e P.V. Mengaldo (Vicenza: Pozza, 1965), 233–323; 237; Giuseppe Indizio, “La profezia di Niccolò e i tempi di stesura del canto 19 dell’Inferno,” in Id. Problemi di biografia dantesca (Ravenna, Longo, 2013), 203–221; 216; Gianfranco Contini, “Preliminari sulla lingua del Petrarca,” in Varianti e altra linguistica: una raccolta di saggi (1938–1968) (Torino: Einaudi, 1970), 169–192; 175.

2. Così, per esempio, in Saverio Bellomo, Filologia e critica dantesca, Nuova edizione riveduta e ampliata (Brescia: La Scuola, 2012): “Nel 1287 si recò a Bologna probabilmente per frequentare l’università” 16; “partecipò ai tentativi di rivincita dei Bianchi, probabilmente non come combattente, ma come politico”, “Riparò probabilmente a Treviso da Gherardo da Camino” 19; “È possibile che [circa il 1307] soggiornasse a Lucca, dove forse lo raggiunse la famiglia,” “con il sopravvento [. . .] dei guelfi Neri fu interdetto il soggiorno nella città ai banditi fiorentini, avvenimento probabilmente all’origine delle frecciate contro la città nel canto XXI dell’Inferno,” “Dante gli va incontro [all’imperatore], ma non sappiamo dove ” 20; “Probabilmente verso la metà di quell’anno fa ritorno a Verona,” “Non è esclusa una frequentazione saltuaria di quella città [Ravenna] anche prima” 21.

3. Si vedano, per esempio, Michele Barbi, “Una nuova opera sintetica su Dante,” Bullettino della Società Dantesca Italiana 11 (1904): 1–58; poi in Id. Problemi di critica dantesca. Prima serie 1893–1918 (Firenze: Sansoni, 1975), 30–85; 69–74; Ernesto Giacomo Parodi, “La data della composizione e le teorie politiche dell’Inferno e del Purgatorio,” in Poesia e storia nella “Divina Commedia” (1921), a cura di Gianfranco Folena e Pier Vincenzo Mengaldo (Vicenza: Pozza, 1965), 233–323; Giuseppe Vandelli, “Per la datazione della Commedia,” in Per il testo della “Divina Commedia,” a cura di Rudy Abardo, con un saggio introduttivo di Francesco Mazzoni (Firenze: Le Lettere, 1988), 81–94; Giuseppe Vandelli, “Ancora sulla datazione della Commedia,” in Per il testo della “Divina Commedia,” 95–100.

4. Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di Roberto Antonelli (Firenze: La Nuova Italia, 1992), 8.

5. La formula tra virgolette è di Contini, “Implicazioni leopardiane,” in Varianti e altra linguistica, 41–52; 41: “Ho trovato le tue osservazioni [sc. di Giuseppe De Robertis] così eccitanti e vitali [. . .] che non so resistere alla tentazione di aggiungergli, per mio conto, un’appendice [. . .]. Naturalmente, quest’appendice rappresenterà uno spostamento del punto di vista.”

6. “Come noi la leggiamo” significa semplicemente: con inizio della storia nel mezzo del cammin di nostra vita, cioè nel 1300, con la profezia di un misterioso Veltro che sarà salute dell’I-talia per cui lottarono gli eroi di Virgilio e con la piena consapevolezza da parte di Virgilio che la sua funzione di guida si interromperà subito dopo aver guidato Dante oltre il muro di fiamme del Purgatorio (canto 1); con la condanna di colui che fece per viltate il gran rifiuto, favorendo così l’ascesa di Bonifacio VIII, e con la consapevolezza di Caronte (e dell’autore) che chi non sia dan-nato non deve salire sulla sua barca, ma su quella più lieve (un vasello snelletto e leggero) del celestial nocchiero del Purgatorio (canto 3); con la scelta di Dante di scrivere un poema cristiano superiore a quella di Omero e della sua bella scola, relegati nel Limbo (canto 4); con la conoscenza di fatti di cronaca nera romagnola come l’omicidio di Paolo e Francesca (canto 5); con la precisazione che Dante incontrerà il ghibellino Farinata, il Tegghiaio, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca tra le anime più nere, e la profezia della rovina dei Bianchi (canto 6). Il semplice insieme di questi elementi è inconciliabile con l’idea di una stesura fiorentina, anteriore all’esilio, dei primi sette canti. E si veda anche la più serrata analisi di Giorgio Padoan, Il lungo cammino del “poema sacro.” Studi danteschi (Firenze: Olschki, 1993), 26–27. Cosa ci potesse essere in eventuali precorrimenti pre-esilio del poema non è, allo stato attuale, possibile sapere e sembra dunque irrilevante ai fini dei presenti appunti.

7. Segnalo anche che, verosimilmente a causa dell’estrema scarsità dei dati certi, in molti casi ho finito per trovare assolutamente condivisibili, riutilizzandoli in una nuova prospettiva, argomenti che studiosi precedenti avevano avanzato in servizio di soluzioni radicalmente diverse da quelle proposte in queste pagine.

8. Gianfranco Folena, “La tradizione delle opere di Dante Alighieri,” in Atti del Congresso Internazionale di Studi danteschi, Firenze-Verona-Ravenna, 20–27 aprile 1965 (Firenze: Sansoni, 1965), vol. 1, 1–78; 40–41. Studi recenti suggeriscono però che la chiosa sia posteriore al 14 giugno 1314: Giuseppe Indizio, “Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio,” in Problemi di biografia dantesca (Ravenna: Longo, 2013), 223–246; 244–245. E anche l’argomento lanciano, che risale a Folena, “La tradizione” (l’Eneide del Lancia, dove si cita Purg. 2.81, sarebbe databile 1316), va riconsiderato, abbassandone la data: vari aspetti della questione sono affrontati da Luca Azzetta e da Claudio Lagomarsini, rispettivamente in Ordinamenti, provvisioni e riformagioni del comune di Firenze volgarizzati da Andrea Lancia (1355–1357), (Venezia: Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2001), 14–16, e in Aeneis. volgarizzamento senese trecentesco di Ciampolo di Meo Ugurgieri (Pisa: Edizioni della Normale, 2018), 119–133.

9. Folena, “La tradizione,” 41. La mira è, ovviamente, alla ricostruzione di Giorgio Petrocchi, “Intorno alla pubblicazione dell’Inferno e del Purgatorio,” Convivium 6 (1957): 652–669, poi in Id., Itinerari danteschi, a cura di Carlo Ossola (Milano: Franco Angeli, 1994), 88–103.

10. I lavori che ho consultato sono, nell’ordine: Michele Barbi, Dante: vita opere e fortuna (Firenze: Sansoni, 1933), poi con il titolo Vita di Dante (ivi: 1961); Petrocchi, “Intorno alla pubblicazione;” Antonio Enzo Quaglio, “Commedia. 2. Composizione,” in Enciclopedia dantesca, (Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970), vol. 2, 81–82; Giorgio Padoan, Introduzione a Dante (Firenze: Sansoni, 1975); Francesco Mazzoni, “Prefazione,” in Dante Alighieri, La Divina Commedia con il commento Scartazzini-Vandelli (Firenze: Le Lettere, 1978), v–xlii; Giorgio Petrocchi, Vita di Dante (Rome: Laterza, 1983); Padoan, Il lungo cammino; Enrico Malato, Dante (Roma: Salerno, 1999); Lino Pertile, “Dante,” in The Cambridge History of Italian Literature, a cura di Peter Brand e Lino Pertile (Cambridge: Cambridge University Press, 1999), 39–69; Gugliemo Gorni, Dante. Storia di un visionario (Roma: Laterza, 2008); Bellomo, Filologia e critica dantesca; Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita (Milano: Mondadori, 2012); Giorgio Inglese, Vita di Dante. Una biografia possibile (Roma: Carocci, 2015); Alessandro Barbero, Dante (Roma: Laterza, 2020); Elisa Brilli, Giuliano Milani, Vite nuove. Biografia e autobiografia di Dante (Roma: Carocci, 2021); Paolo Pellegrini, Dante. Una vita (Torino: Einaudi, 2021).

11. Ricavo entrambe le citazioni da Alberto Casadei, Dante oltre l’allegoria (Ravenna: Longo, 2021), 5–96; 5.

12. Mirko Tavoni, “Quanto è probabile che Dante abbia scritto il ‘De vulgari eloquentia’ a Bologna e perché ci interessa?,” Nuova Rivista di Letteratura Italiana 24/2 (2021): 11–109.

13. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di Mirko Tavoni, in Opere. Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia, edizione diretta da M. Santagata (Milano: Mondadori, 2011), vol. 1, 1067–1547, cui fanno seguito una decina di lavori compresi tra il 2014 e il 2021, ricapitolati in Tavoni, “Quanto è probabile.”

14. Petrocchi, Vita, 98–99, le cui tesi sono respinte da Giuseppe Indizio, “Le tappe venete dell’esilio di Dante,” in Id., Problemi, 93–114.

15. Tavoni, “Quanto è probabile,” 94.

16. Tavoni, “Quanto è probabile,” 95–96.

17. Tavoni, “Quanto è probabile,” 96.

18. Come è ben noto, la consecuzione del trattato latino a una parte di quello volgare risulta da Conv. 1.5.10, dove Dante annuncia il proposito di scrivere un trattatello “di Volgare Eloquenza”: Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.

19. Dante Alighieri, Convivio, in Le opere di Dante, a cura di Domenico De Robertis e Gian-carlo Breschi (Firenze: Polistampa, 2012), 295–471; 432–471.

20. Così nei documenti pubblicati da Emilio Orioli, Documenti bolognesi sulla fazione dei Bianchi (Bologna: Tipografia Garagnani e Figli, 1896) estratto da Atti e memorie della R. Deputazione di storia Patria per le provincie di Romagna, (Bologna 1896), serie 3, vol. 14, 1–15: 4, e ripetutamente citati da Tavoni, “Quanto è probabile,” 19 e 59.

21. “Ma però che in questo capitolo senza troppa lunghezza ciò trattare non si potrebbe, e li lunghi capitoli sono inimici della memoria, farò ancora digressione d’altro capitolo” (Conv. 4.4.14).

22. Charles S. Singleton, Dante Studies. 1. Commedia. Elements of Structure (Cambridge: Harvard University Press, 1954); Gianfranco Contini, “Un libro americano su Dante,” in Un’idea di Dante. Saggi danteschi (Torino: Einaudi 1970), 217–224; 217.

23. Ne è ora disponibile l’Inferno in Dante Alighieri, Commedia. Inferno, edizione critica e commento a cura di Luisa Ferretti Cuomo, Elisabetta Tonello, Paolo Trovato, (Padova: libreriauniversitaria.it, 2022), vol. 2. I commenti di Ferretti Cuomo al Purgatorio e Paradiso usciranno nel 2024 con i corrispondenti volumi dell’edizione critica.

24. Piermario Vescovo, Il tempo di Dante. Cronologie della Commedia (Roma: Salerno, 2018), 80–81.

25. Vescovo, Il tempo, 77–78 (corsivi miei).

26. Vescovo, Il tempo, 80–81 (corsivi miei).

27. Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia (Milano: Bruno Mondadori, 2001), 21. Le due citazioni precedenti di Pasquini sono in Dante, 14 e 20.

28. Roberto Antonelli, “Come (e perché) Dante ha scritto la Divina Commedia?,” in Critica del testo 14/1 (2011): 3–23; 13.

29. Charles S. Singleton, “The vistas in retrospect,” in Atti del Congresso Internazionale di Studi danteschi, Firenze-Verona-Ravenna, 20–27 aprile 1965 (Firenze: Sansoni, 1965), vol. 1, 279–304; 289 e 302 (corsivi miei).

30. Harald Weinrich, La memoria di Dante (Firenze: Accademia della Crusca, 1994), 16–17.

31. Purg. 2.40–44, da confrontare con Inf. 4.130–135. Si veda al riguardo Padoan, Il lungo cammino, 96.

32. Vescovo, Il tempo, specialmente 75–79, 96, 104. Ovviamente, letture di questo tipo non ignorano, e anzi presuppongono, le sfaccettate analisi nordamericane della palinodia in Dante. Un’ampia discussione è presente in Albert Russell Ascoli, Dante and the Making of a Modern Author (Cambridge: Cambridge University Press, 2008), ora nella traduzione italiana di Anna Montanari, Dante e l’invenzione di un autore moderno, pubblicata online su academia.edu. Vi si leggono, tra l’altro, affermazioni come quella di Freccero che segue: “La coerenza del poema può essere colta se si guarda alla sua totalità, una visione dalla fine” (226, nota 15), oppure, dello stesso Ascoli: “La posizione di Freccero [. . .] si fonda storicamente sull’applicazione del modello della confessione e della conversione agostiniana, non solo alla Commedia in sé, ma all'opus dantesco nella sua interezza [. . .]. Questo modello implica il raggiungimento, per lo meno teorico, di una ‘prospettiva della fine’ contemporaneamente collocata al termine del tempo e al di fuori di esso, dalla quale tutto ciò che è stato prima può essere rivisto e compreso (Freccero 1966, pp. 25–27). Entro i confini della Commedia ciò accade con la visione conclusiva della Divinità, verso cui il poema progredisce sistematicamente” (41); “Le differenze e le contingenze residue del sé e della storia vengono, a un tempo, riconosciute e limitate, collocandole entro un ordine narrativo gerarchico, dove ciò che si trova più in alto, e per ultimo, include e interpreta ciò che si trova più in basso e che precede” (226). E si veda anche il saggio teso e anticipatore di Singleton che ho appena citato, “The vistas.”

33. “Perhaps the most controlling authorial consciousness to be found in the Western tradition.” Albert Russell Ascoli, “Performing Salvation in Dante’s Commedia,” Dante Studies 135 (2017): 74–106; 92.

34. Antonelli, “Come (e perché),” 7. Si avverta però che anche Antonelli, come altri autori di osservazioni per me illuminanti, ritiene che Dante sia intervenuto successivamente a rivedere il poema. Sulla questione della numerologia si veda almeno Manfred Hardt, Die Zahl in der Divina Commedia (Frankfurt am Main: Athenäum, 1973), accessibile anche nella traduzione italiana di Beniamino Lazzarin, I numeri nella Divina Commedia (Roma: Salerno, 2014).

35. Il mio scambio epistolare con Bartoli Langeli risale al 12 gennaio 2022. Lo studioso mi segnala anche un paio di progetti coevi di architettura: “Immagino il ‘disegno’ della Divina Commedia sul tipo dei gavantoni in cui Lorenzo Maitani e Ramo di Paganello disegnarono il loro progetto per la facciata del Duomo di Orvieto o della pergamena data dal Comune di Perugia a fra Bevignate causa designandi fontem (la Fontana di Piazza).”

36. Cito dalla traduzione italiana del commento a Inf. 19.79–87 di Robert e Jean Hollander, La Commedia di Dante Alighieri. Inferno / Purgatorio / Paradiso, traduzione a cura di Simone Marchesi (Firenze: Olschki, 2011), vol. 1.

37. Vandelli, “Per la datazione della Commedia,” 81–82.

38. Bruno Nardi, Saggi e note di critica dantesca (Milano: Ricciardi, 1966), 81.

39. Nardi, Saggi, 119. Come si vede, anche Nardi non esclude la possibilità di ritocchi.

40. Entrambe le citazioni sono da Mazzoni, “Prefazione,” xxiii e xxvi.

41. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Maria Chiavacci Leonardi, vol. 1, xliii–xliv. Le date dei trattati sono quelle di Petrocchi. La data di inizio della Commedia è quella riproposta da Quaglio. Nelle note della studiosa a Inf. 19.79–81 si legge per esempio: “per molte solide ragioni si ritiene oramai con sufficiente certezza che la prima cantica sia stata scritta, approssimativamente, fra il 1306 e il 1309 o poco oltre;” invece, nelle note a Purg. 6.100: “La cronologia del poema è incerta, e alcuni luoghi possono sempre essere stati aggiunti o ritoccati, tuttavia che il Purgatorio sia stato scritto dopo il 1308 si può affermare senza incertezze. (Le allusioni storiche dell’Inferno giungono infatti al 1309; cfr. [Quaglio,] Commedia. Composizione in ED [sc. Enciclopedia Dantesca, Roma 1970], vol. 2, 81)”

42. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Chiavacci Leonardi, vol. 1, 38 (corsivi miei). In subordine la studiosa non esclude nemmeno la possibilità che i versi sul Veltro siano stati scritti dopo la morte di Arrigo VII, pensando a Cangrande, ma questa seconda ipotesi implicherebbe, al solito, che anche il primo canto sia stato rivisto in modo radicale dopo l’estate del 1313 e dopo la campagna di Cangrande contro i padovani della primavera del 1314.

43. Brilli-Milani, Vite, 188–189. Si veda poi Inglese, Vita, 102–103. Più o meno su queste posizioni già Egidio Gorra nel 1906, su cui Parodi, “La data,” 263.

44. Sulla datazione della Monarchia, che i più recenti accertamenti filologici sembrano “libe-rare” dal fuorviante rinvio a Par. 5, si veda Alberto Casadei, Dante oltre la Commedia (Bononia: il Mulino, 2013), 107–127; Dante Alighieri, Monarchia, a cura di Diego Quaglioni, in Opere. Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge, edizione diretta da Marco Santagata, vol 2 (Milano: Mondadori, 2014, 828–837; 889–891). Sugli intarsi scritturali di Epistola 5 sono ancora utili le ricerche pionieristiche, ma molto fini, della compianta Paola Rigo, Memoria classica e memoria biblica in Dante (Firenze: Olschki, 1994).

45. Ricavo la citazione da Nardi, Saggi, 48–49. Se il passo dove Dante mostra di ignorare l’elezione di Arrigo VII (Conv. 4.3.6) non è una finzione letteraria, l’analisi, per me molto convincente, di Maria Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale. Percorsi dell’invenzione e altri saggi (Torino: Einaudi, 2003), 145–166 (il capitolo si intitola “Distanza testuale e cronologica del trattato 4?”) e gli scarni accenni autobiografici dell’Epistola 4 (meditationes assiduas, quibus tam celestia quam terrestria intuebar) invogliano, entro la forbice 1306–1308, a collocare la stesura del quarto libro (e forse anche della canzone ivi commentata, Le dolci rime, assolutamente irriducibile alle rime precedenti, ma datata per lo più 1295) non prima della “seconda metà del 1307,” tra Lunigiana e Casentino. Sull’associazione della data e dei luoghi, da ultimo: Casadei, Dante oltre l’allegoria, 19–32, 71, con bibliografia; sui tempi di composizione del quarto libro, Dante Alighieri, Convivio, a cura di Gianfranco Fioravanti, in Opere, edizione diretta da Marco Santagata, vol. 2, 14; sull’opportunità di abbassare la datazione della canzone dantesca – non solo contenutisticamente, ma anche stilisticamente “nuova” e vicina a certe parti dottrinali della Commedia – Corti, Scritti, 165–166, da integrare con Nardi, Saggi, secondo il quale “lo schema della quaestio non è proprio soltanto del commento in prosa, ma altresì della canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia,” 49, e con Vincenzo Pernicone, “Le dolci rime d’amor chi’io solia,” in Enciclopedia Dantesca, (Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1973), vol. 3, 609–610 “In questa canzone ci sono già le premesse per la creazione dantesca del nobile castello del Limbo per gli spiriti eletti dell'antichità che bene operarono nella loro vita in questo mondo, facendo dare buoni frutti al seme di felicità infuso da Dio nella loro anima. Non per loro colpa personale è a essi negata la beatitudine celeste” 610b). Altri tratti di novità della canzone sono segnalati negli studi del Grupo Tenzone, Le dolci rime d’amor ch’io solea, a cura di Rosario Scrimieri (Madrid: Departamento de Filologia Italiana (UCM). Asociación Complutense de Dantologia, 2014).

46. Casadei Dante oltre l’allegoria, 166; ma anche a 164: “Il Dante del poema è, prima di tutto, un narratore in senso moderno.” Riguardo al bildungsroman, si veda, per esempio, Pasquini, Dante: “Il protagonista, che è ancora uomo all’inizio dell’ultimo viaggio, per quanto maturato [. . .], viene a trasumanarsi” nel momento del passaggio dall’eden al primo cielo” 209, “Persino nell’ultimo canto del poema [. . .] si verifica una trasformazione nel profondo [. . .] legata al progressivo perfezionarsi della potenzialità visiva di Dante” 229, o Francesco Mazzoni, Epilogo alla Introduzione della “Commedia, in Con Dante per Dante. Saggi di filologia ed ermeneutica dantesca. III. Ermeneutica della Commedia (Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2015), 495–504: “Al superamento [. . .] di un particolare peccato o al raggiungimento [. . .] di un particolare grado di purgatoriale espiazione o di celestial beatitudine [. . .] consegue il progressivo affrancarsi di Dante personaggio dal peso delle passioni” 498. Ricavo, infine, le formulazioni tra virgolette da Umberto Carpi, “Un Inferno guelfo,” in Nuova Rivista di Letteratura Italiana 13/1–2 (2010): 95–134, che le usa riguardo all’Epistola 11 del 1311.

47. Il primo principio costruttivo, evidentissimo e direi largamente ammesso dagli studiosi, è enunciato con particolare efficacia da John A. Scott, “Dante ha rivisto il testo dell’Inferno nel 1314?,” Studi danteschi 76 (2011): 115–128; 116–117, il quale parla di una “regola costante del poema dantesco che contribuisce a garantire l’apparente veridicità del testo narrato [. . .]. L’autore / narratore [. . .] sta sempre attentissimo alle esigenze create dalla finzione che richiede che gli incontri con le varie anime nell’aldilà abbiano avuto luogo nel 1300.” Il secondo principio, che molti commentatori antichi ricavano da Inf. 10.100, è enunciato chiaramente da Vescovo, Il tempo, 76. Anche il terzo principio è descritto bene nello stesso volume di Vescovo, tra l’altro nel passo che cito alla fine di questo paragrafo.

48. Vescovo, Il tempo, 24.

49. Vescovo, Il tempo, 82 (corsivi miei). Anche per Inglese, “l’involucro enigmatico [delle profezie ‘imperiali’] permette al Poeta di mantenere nel testo i suoi annunzi anche quando, fallito e morto Enrico, essi si ritroveranno oggettivamente traslati ai suoi successori” Inglese, Vita, 109.

50. Che Dante intenzionalmente “obliteri” la storia recente è notato, ad altri fini, anche da Casadei, Dante oltre la Commedia, 79.

51. Enrico Malato, Per una nuova edizione commentata delle opere di Dante (Roma: Salerno, 2004), 106–107.

52. Inglese, Vita, 133.

53. Leighton Durham Reynolds e Nigel Guy Wilson, Copisti e filologi: la tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni (Padova: Antenore, 1987), 22–24; Silvia Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti (Roma: Edizioni di storia e letteratura, 1973), 45, 70, 77, 322–323, e anche ad indicem, sotto la voce edo.

54. Si veda Santagata, Dante, 323 e note.

55. Dopo il classico Nardi, Saggi, 268–305, si vedano, per esempio, i contributi recenti e divergenti di Casadei, Dante oltre la Commedia, 15–43; Dante Alighieri, Epistole, Ecloge, Questio de situ et forma acque et terre, a cura di Manlio Pastore Stocchi (Roma: Antenore 2012), 96; Dante Alighieri, Epistole, a cura di Claudia Villa, in Opere, edizione diretta da Marco Santagata, vol. 2, 1419–1430 e 1565–1592; Saverio Bellomo, “L’epistola a Cangrande, dantesca per intero: ‘a rischio di procurarci un dispiacere’,” L’Alighieri 45 (2015): 5–19; Claudia Villa, “Cronologie dantesche: il canto 19 dell’Inferno e il memoriale per Cangrande (Ep. 13),” Studi danteschi 82 (2017): 29–50; Alberto Casadei, Dante. Altri accertamenti e punti critici (Milano: Angeli, 2019), 31–102, e soprattutto Nuove inchieste sull’epistola a Cangrande. Atti della giornata di studi, Pisa, 18 dicembre 2018, a cura di Alberto Casadei, con la collaborazione di Elisa Orsi e Marco Signori (Pisa: Pisa University Press, 2018), che raccoglie otto studi di altrettanti autori.

56. La controversa epistola è stata ridiscussa recentemente da Barbero, Dante, 217–218 con annessa bibliografia.

57. Alcuni dati sulla tradizione veneta in Paolo Trovato, “Qualche riflessione sui più antichi manoscritti veneti della Commedia (e specialmente su Bud, Franc e Trev),” in Dante 2015. 750 Jahre eines europäischen Dichters / 750 anni di un poeta europeo, a cura di Paul Geyer e Marinella Vannini (Bonn: Peter Lang, 2020), 177–191.

58. Folena, “La tradizione,” 40–41; Casadei, Dante oltre la Commedia, 61, da cui si cita.

59. Sulla tradizione tre-quattrocentesca e sull’archetipo si veda Elisabetta Tonello e Paolo Trovato, Introduzione a Dante Alighieri, Commedia (Padova: libreriauniversitaria.it, in stampa). Sulla verosimile diffusione della Commedia a Ravenna e sulla parte di Iacopo dopo la morte di Dante, da ultimo, ancora Casadei, Dante oltre la Commedia, 45–50 con ampia bibliografia.

60. Inglese, Vita, 118.

61. Gli studi pertinenti sulla Vita Nuova sono ricordati in Dante Alighieri, Vita nova, a cura di Stefano Carrai (Milano: Rizzoli, 2009), 18–21; mentre sul lavoro simultaneo di Petrarca alla prima e alla seconda parte dei fragmenta, è fondamentale Domenico De Robertis, “Problemi di filologia delle strutture,” in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, atti del Convegno di Lecce, 2–26 ottobre 1984 (Roma: Salerno, 1985), 383–40, specialmente 395–398.

62. Per non fare che qualche esempio, Padoan in Il lungo cammino, 94–95, aveva segnalato una notevole serie di riprese e “rinvii allusivi, anche per antifrasi” tra Inf. 1–5 e Purg. 1–5: nocchier de la livida palude / celestial nocchier; antico pelo / etterne penne, che non si mutan come mortal pelo; gittansi di quel lito / si gittar tutti in su la piaggia [. . .]. Le corrispondenze tra i canti 6–7, 15–16 e 27 delle prime due cantiche sono ricordate da Antonelli, “Come (e perché),” 12–13. Una folta bibliografia è raccolta nel primo dei tre volumi di Vertical Readings in Dante’s Comedy, a cura di George Corbett e Heather Webb (Cambridge: Open Book Publishers, 2015), 2, nota 4.

63. I volgarizzamenti trecenteschi dell’Ars amandi e dei Remedia amoris, a cura di Vanna Lippi Bigazzi (Firenze: Accademia della Crusca, 1987), vol. 1, 839–881; Giuseppe Indizio, “Inizio e diffusione della ‘Divina Commedia’ prima della pubblicazione,” Documenta 3 (2020): pp. 9–32.

64. Scott, “Dante ha rivisto,” 116.

65. Anche Scott, “Dante ha rivisto,” 116, osserva che la revisione “avrebbe dovuto sottostare alla concatenatio ferrea della terza rima.”

66. Vat. Lat. 3196, folio 17r (consultabile online su digi.vatlib.it).

67. Contini, “Preliminari sulla lingua del Petrarca,” in Varianti e altra linguistica, 173.

68. Lettera del 10 ottobre 2021.

69. Emilio Pasquini, “Riflessioni sul testo della Commedia dantesca,” in Ecdotica 17 (2020): 27–35; 32, nota 36.

70. Un elenco, non sempre persuasivo, è in Padoan, Il lungo cammino, 40, 43, 98, da leggere tenendo conto delle riserve di Inglese, Vita, 119–120. Altre “contraddizioni” per lo più superabili alla luce del principio costruttivo dell’acuirsi della visione, sono discusse da Pasquini, Dante, 11–24, e da Casadei, Dante oltre l’allegoria, 39–40, 48–49, 50, 54–51.

71. Sull’interpunzione della sottofamiglia più conservativa, si veda Paolo Trovato, “Codici puntati e codici senza interpunzione. Qualche idea sull’aspetto paragrafematico dell’archetipo della ‘Commedia,’ ” in Nuove prospettive sulla tradizione della Commedia. Terza serie, a cura di Martina Cita, Federico Marchetti, Paolo Trovato (Padova: libreriauniversitaria.it, 2021), 129–159.

72. Pasquini, Dante, 154.

73. Come Pasquini, anche Vescovo in Il tempo, 59, sottolinea la raffinatezza della duplice profezia: “Si tratta di un luogo [. . .] dove una triplice individuazione, in una arditissima sovrapposizione di destini, sembra palesarsi: un tempo della storia in cui Niccolò attende Bonifacio non ancora morto (aprile 1300); un tempo del racconto collocato dopo la morte di Bonifacio, in cui si sarà già compiuta la sostituzione (almeno post 1303); un tempo della scrittura che potrebbe addirittura porsi – e secondo me si pone – al di là del 20 aprile 1314.” Di diverso parere Casadei, Dante oltre la Commedia, 99–102; Id., Dante. Altri accertamenti, 165, che, immaginando che il canto sia scritto “intorno al 1307 o 1308,” parla di “incongruità testuali [. . .] incomponibili,” se non si pensa a una parziale riscrittura. Mi permetto di ricordare che, secondo la mia ipotesi, il canto 19 dovrebbe essere stato scritto parecchi mesi dopo il 1310.

74. Un’utile rassegna dei dati e delle posizioni degli studiosi fino al 2013 in Indizio, Problemi, 203–221; Villa, “Cronologie dantesche;” Casadei, Dante. Altri accertamenti, 60, 264–265 (per la precisione, Indizio ammette un ritocco limitato ai tre versi che riguardano la profezia e anche Casadei pensa a “un’aggiunta”).

75. Così, per esempio, Parodi, “La data,” 239–240, nota 3. Si veda poi Claudia Villa, “Cronologie dantesche,” 30–38.

76. Casadei, Dante oltre la Commedia, 101.

77. La datazione al 1309–1310 era già stata avanzata, con argomenti non irresistibili, da Egidio Gorra, di cui in Parodi, “La data,” 263.

78. Il dossier sull’argomento barberiniano è utilmente ridiscusso da Indizio, Problemi, 341–352.

79. Il regesto delle citazioni esplicite è in Indizio, “Inizio e diffusione.” Si aggiunga in Ars la citazione implicita da Purg. 3.8 (o dignitosa coscienza e netta) che si legge in Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecenteschi, vol. 2, 746, alla glossa 329: Se tu vuoli seguire la coscienza netta d’Ovidio.

80. Ovidio, Heroides. Volgarizzamento fiorentino di Filippo Ceffi, a cura di Massimo Zaggia (Firenze-Pisa: Sismel Edizioni del Galluzzo-Edizioni della Normale, 2009), vol. 1, 37.

81. Glossa 84, in Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecenteschi, vol. 2, 860. Segnalo che il “lancia” forse allusivo all’autore nell’ultima delle chiose B ai Remedia (“per l’occhi delle donne gaie si lancia,” 881) riprende “le lanci” metaforiche della prima chiosa (“sente più gravemente le lanci gittate nello interiore cassero,” 839).

82. Tra i riscontri più forti, oltre al frequente tagliare ‘uccidere,’ forse per francesismo semantico, anche la camiscia senza capezzale usata da Clitennestra per facilitare l’uccisione di Agamennone. In Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecenteschi, vol. 2, 845, nota 19.

83. Si veda per esempio la mossa Non credere, lettore, ch’io sia ismemorato; io so bene che d’Europa nel principio del libro scrissi, ma non così a pieno (Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecenteschi, vol. 2, 790, glossa 487).

84. Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecenteschi, vol. 2, 883–937.

85. Gli studi più importanti sul codice, che lo retrodatano con decisione rispetto ai cataloghi del secolo scorso, si ricavano dalla ricca scheda di Irene Ceccherini, “Il Libro dell’arte di amare di Ovidio trascritto da Andrea Lancia e altri cinque copisti,” in Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 21 aprile–31 luglio 2021, a cura di Luca Azzetta, Sonia Chiodo, Teresa De Robertis (Firenze: Mandragora, 2021), 266.

86. Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecenteschi, vol. 1, 35 e 39–40; Ovidio, Heroides, a cura di Zaggia, vol. 1, 31.

87. La digressione d’attualità si innesta direttamente su una glossa ad Ovidio: Cioè essere principe di tutta l’oste. E io, che non sono poeta, dico che le più volte i principi hanno il nome e altri hae il fatto. Che fa ora lo ‘mperadore Errigo di Luximborgo? Elli ha nome d’imperadore, ma altri lo rege nel terreno a lui straniero, come la guida il cieco (Lippi Bigazzi, I volgarizzamenti trecenteschi, vol. 2, 859). Le date limite proposte a testo (giugno 1312–agosto 1313) spettano a Indizio, “Inizio e diffusione,” 28 (Lippi Bigazzi si era limitata a un tanto più largo “tra il 1310 e il 1313”). Infine, non è decisiva la datazione vulgata delle Heroides del Ceffi, che Massimo Zaggia fissa prudenzialmente al 1325, tuttavia senza escludere l’eventualità di una retrodatazione dell’ordine di grandezza di un decennio (Ovidio, Heroides, a cura di Zaggia, vol. 1, 115–117).

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