In realtà fu la Sicilia a raccontare il bandito

ROMA - L' idea di raccontare Giuliano nacque durante le riprese di La terra trema. Francesco Rosi era assistente di Visconti e si girava nella Sicilia del ' 48. La presenza del bandito e l' eco delle sue imprese si avvertivano fortemente in tutta l' isola. Più di dieci anni dopo il progetto diventò concreto ma i problemi furono parecchi. Ricorda il regista: "Soprattutto prima delle riprese. I finanziamenti allora venivano dalla Banca Nazionale del Lavoro su segnalazione del ministero, che nel nostro caso "sconsigliò" la banca di concederlo. Ma Franco Cristaldi e la Lux tennero duro". Che cosa la spinse a voler fare il film? "L' ho fatto per capire - io per primo - una storia che ancora oggi è avvolta nel mistero. Esistono ben 16 versioni della morte di Giuliano, di cui tre sono le versioni ufficiali, una delle quali, quella secondo cui Giuliano sarebbe morto durante il conflitto a fuoco, non è stata mai smentita. E quando fu processato il Pisciotta, il suo avvocato disse che nessuna delle 16 versioni era quella precisa". Si è chiesto il perché del mistero? "è essenziale tenere conto della situazione politica del momento, delle rivalità tra polizia e carabinieri e del rapporto con le istituzioni, degli scontri tra i vari gruppi di mafia e del loro legame con i politici". Come si prepara un film quando la materia è così vaga e insidiosa? "Con Suso Cecchi d' Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas, con i quali ho scritto la sceneggiatura, abbiamo cercato documenti e atti del processo. Con spirito didattico: se davanti a un caso che esprime gli elementi base dell' intrigo, della collusione tra i poteri, politico, criminale, economico, non ti poni con l' intenzione di voler essere didattico, come fai a capire e a far capire agli altri? Da una parte il tirante didattico, dall' altra la voglia di seguire un' emozione, o la partecipazione al dolore delle vittime dell' intrigo. Essenziale è stato il contatto con la Sicilia". Che cosa le ha dato? "La mia prima, giusta intuizione è stata quella di voler fare il film nei luoghi reali, a Montelepre dove Giuliano era nato e vissuto e aveva fatto le sue battaglie, a Castelvetrano, a Portella della Ginestra, a san Giuseppe Jato. Giuliano era morto nel 1950, io ho girato nel ' 60, volevo lavorare con la gente che aveva vissuto gli eventi, provocare una sorta di psicodramma collettivo, limitando al minimo la partecipazione degli attori professionisti. La partecipazione umana dei siciliani mi arricchiva, giorno dopo giorno, ciascuno raccontava la propria memoria, cose che nessun giornale riportava, che nessuno sceneggiatore avrebbe potuto inventare". Per esempio? "La rivolta delle donne contro le forze dell' ordine per esempio, poi gesti, comportamenti, reazioni. Durante le riprese del massacro di Portella della Ginestra, mi commossi quando tra la folla sentii dire con accenti stupiti Era così, era proprio così... Dai loro racconti seppi che nessuno si accorse dei banditi che sparavano, nessuno era girato verso di loro prima della fuga. Era tale la partecipazione sul set che agli spari la gente cominciò a correre realmente spaventata, e a malapena la macchina da presa non fu travolta". Una delle sequenze più forti è quella della madre davanti al cadavere di Giuliano... "Avevo scelto una madre di dieci figli, uno dei quali era morto in circostanze analoghe a quelle del bandito. Come fanno tanti registi, ho cercato di approfittarne, anche di provocarla: l' ho messa all' improvviso davanti alla bara con il cadavere. Lei si è messa a piangere e a gridare una disperazione che non era recitata, le veniva da dentro". Fu difficile ottenere la collaborazione dei siciliani? "Da meridionale, so che con i meridionali non bisogna nascondersi, si deve parlare con cautela, ma con chiarezza. A Montelepre trovai molta diffidenza. Radunai un bel gruppo di persone e feci un discorso. Sono venuto qui per lavorare con voi, per cercare con voi la verità, e lavoro qui, sotto i vostri occhi, potete controllarmi di continuo, non ho ricostruito la Sicilia a Cinecittà. Piano piano si sciolsero, e mi regalarono le memorie dei loro patimenti e delle emozioni, anche con la voglia di liberarsi. Quando videro il film mi ripagarono: La sua opera è ben fatta". Nessun problema durante le riprese? "No, soltanto al cimitero di Montelepre un nipote di Giuliano voleva impedirci di riprendere la tomba del bandito, abbiamo chiamato il maresciallo, che ha chiamato il fratello maggiore di Giuliano. Hanno parlato a lungo, poi il fratello ha detto: Girassi pure, ma sulla lapide scivesse Francesco Rosi. I veri problemi erano altri: sul set abbiamo sempre avuto due poliziotti. Il pretesto ufficiale era che, poiché usavamo le armi, era necessario un controllo, anche se avevo spiegato loro che erano innocue. In realtà erano lì a controllare quello che facevamo. La conferma l' abbiamo avuta quando un giorno si erano allontanati e al ritorno hanno pregato il mio assistente di raccontare quello che era successo perché dovevano scrivere il loro rapporto quotidiano". E dopo le riprese? "A parte l' esclusione da Venezia, ci vollero trenta giorni per il visto di censura. E pensare per fare il film, dall' idea alla fine, ci ho messo solo un anno. E l' ho montato in 72 ore. è stato un film che a un certo punto mi ha preso la mano, andava avanti da solo. L' ho paragonato a un mulo che, quando lo carichi di più, scalcia e si libera di quello che sa di non poter portare". Se dovesse rifare il film oggi cambierebbe qualcosa? "Non molto, forse cercherei di approfondire l' indagine sugli elementi più oscuri, sui mandanti, sulla mafia e il legame con Roma, con lo Stato. Perché una cosa chiara da sempre è che l' importante era prendere Giuliano morto. E non era solo la mafia a volerlo morto, chissà cosa avrebbe detto in un tribunale, che nomi avrebbe fatto. Al processo di Viterbo, ascoltando la sentenza Pisciotta gridò Accussì finì, e con toni minacciosi accennò che si sarebbe rifatto al processo per la morte di Giuliano. Processo che non si è mai fatto". Che persona era Giuliano, secondo lei? "Forse era in buona fede quando lottava come separatista, era colonnello dell' Evis, si sentita patriota, si era illuso di lottare per la libertà della Sicilia, era giovane - è importante ricordare che quando è morto aveva solo 28 anni - e si era esaltato. Ma è stato uno che ha svolto prevalentemente attività criminale, 430 persone, anche donne e bambini, sono morte per causa sua. Non vedo niente di nobile e di romantico nelle sue gesta, allora c' era qualche equivoco, in Sicilia raccontavano imprese buone, come quando ammazzò un postino che rubava dalle lettere i dollari degli emigranti. Ricordo che a Cuba, quando portai il film, lo consideravano un guerrigliero, non volevano credere che era uno strumento della mafia e delle istituzioni, che lo avevano usato e poi fregato".

di MARIA PIA FUSCO